Mercoledì 7 febbraio, promosso dalla libreria Modusvivendi di Palermo, si è svolto l’incontro con l’autrice di Vita mia, ultima fatica di Dacia Maraini.
Ai Cantieri Culturali alla Zisa si è riunito un folto pubblico che ha dovuto superare le “macchinose procedure d’ingresso”, come lo stesso libraio Fabrizio Piazza le ha definite, per accedere al cinema De Seta, spazio opportunamente cambiato con la prevista sala del Cre.Zi. Plus, proprio per l’alto numero delle richieste di partecipazione, che non si sono fatte piegare nemmeno dall’obbligatorietà dell’acquisto del volume.
E così, sistemato un pubblico a grande maggioranza femminile, arriva l’ospite con l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando che prende posto in platea. Con lei sul palco salgono il giornalista e scrittore Felice Cavallaro, conduttore dell’evento, e l’attrice Valentina Todaro cui spetterà il compito di leggere magistralmente alcune pagine del libro.
Si comincia con l’incipit e si torna insieme indietro con la memoria a tempi e luoghi che la memoria di un’altra, la scrittrice appunto, rende presenti quanto basta per suscitare la voglia di continuare la lettura.
E dai ricordi della bambina, costretta a passare due anni della sua giovane vita in un campo di concentramento nel Giappone allora alleato dei nazisti e quindi della Repubblica di Salò in un’Italia già “resistente”, lo sguardo e le parole si muovono tra passato e presente affrontando più o meno a fondo molti dei fatti e dei temi della nostra contemporaneità.
La citazione del Premio Campiello 1990, La lunga vita di Marianna Ucria, diventa spunto per parlare della violenza di genere, degli stupri della giovanissima donna di Palermo e della bambina di Catania, temi che ritorneranno più volte nel corso della serata e che porteranno Maraini ad affermare che la presunta bontà della donna come fatto fisico di natura altro non è, in realtà, che una risposta di adattamento ad un fatto sociale, attraverso la sublimazione dell’oppressione esercitata dal potere patriarcale. Più in là, verso la fine dell’incontro, ci dirà come la sessualità e la sua educazione, oggi, in piena crisi della famiglia, siano divenute, attraverso i social, pornografia, caccia, dinamica di preda e predatore.
E così, con lo stesso garbo e la stessa sorridente misura appresa forse proprio nella sua infanzia nipponica, Dacia ci parla di pace e di guerra e si interroga sulla necessità dell’aggredito di difendersi dall’aggressore, su cosa sia più utile per un’etica della convivenza nel confronto con gli altri e con le istituzioni, preferendo senza ombra di dubbio la democrazia a qualunque forma autoritaria di governo.
E poi ci dice che non siamo ombre ma siamo fragili e duriamo poco e questa consapevolezza non può che renderci umili e che l’umiltà è necessaria alla convivenza pacifica. Pura Poesia.
E ancora che sembra esserci oggi voglia di guerra, in un ritorno al passato che sostituisce la giustizia con la vendetta del diluvio del Vecchio Testamento. Cita il sopravvissuto Lot di Sodoma e Gomorra, senza omettere un cenno alla mancanza assoluta del nome della moglie in qualsiasi parte del racconto, e ricorda ancora Pasolini, la pena di morte, la negazione del diritto all’esistenza. Disarmonia verso armonia.
Ci mette di fronte alla contraddizione del nostro e di ogni tempo in cui l’ordine morale di non uccidere si accompagna all’ordine di uccidere dei governi in guerra.
Ci parla della morte, del suo tabù che ci aiuta ad affrontarla, traendo spunto dalla lettura del brano del dialogo col padre a proposito della metempsicosi nella fede nipponica; ci parla della fede, attribuita al sentimento, e della paura che sembra esser nutrita oggi nei confronti della ragione e della scienza, associando l’antiscienza all’antidemocrazia.
Eppure, nonostante la paura per le nostre libertà, crede nel buonsenso, lei, piccola illuminista vegetariana. “Se vai, anche solo per caso una volta al macello, non puoi più mangiare carne, poi” afferma. Ma non giudica chi lo fa, solo ci invita a chiedere che non ci siano più allevamenti intensivi. E qui, mi dispiace, ma non sono d’accordo con lei: credo che nemmeno i nazisti abbiano fatto peggio delle fabbriche di carne, dice.
E sì, si è parlato anche degli affetti privati e familiari, di Fosco e Topazia, papà e mamma, del nonno Enrico duca di Salaparuta, di Elsa Morante e Alberto Moravia.
Un incontro in cui personale e politico si sono intrecciati proprio come le donne, e le femministe come Dacia in particolare, sanno fare.