Nuova drammatica emergenza al campo profughi di Cox’s Bazar, nel sud del Bangladesh, uno dei più grandi al mondo.
Circa 4.000 profughi Rohingya — la minoranza etnica musulmana costretta a fuggire dal Myanmar per le ripetute violenze della giunta militare al potere — sono stati costretti a sfollare dalla zona dopo che un vasto incendio ha devastato il campo profughi, distruggendo circa 800 abitazioni.
Il rogo non ha causato vittime ma ha avuto facile presa sulle abitazioni di fortuna, costruite principalmente con canne di bambù e teli di plastica.
Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), che gestisce il campo di Cox’s Bazar, le fiamme hanno divorato anche 5 costruzioni adibite a scuole e 2 a moschea, aggravando l’emergenza.
Su come si vive nel grande campo di Cox’s Bazar e su quale futuro sia auspicabile per i Rohingya, l’agenzia stampa Interris.it ha intervistato Filippo Ungaro, portavoce Unhcr, che in passato ha visitato il campo in prima persona.
Chi sono i Rohingya?
“I Rohingya sono un’etnia dell’attuale Myanmar. Sei anni fa a causa di persecuzioni e violenze che hanno subito in patria nella regione di Rakhine sono stati costretti a abbandonare la loro patria verso il Bangladesh, poco distante. Oltre 700 mila persone sono scappate al di là del confine.
Ma in realtà questi movimenti di persone dal Myanmar al Bangladesh erano cominciati negli anni 80 perché in Myanmar ci sono una serie di etnie.
A molti di questi gruppi etnici negli anni 80 è stata riconosciuta la cittadinanza.
Ma non ai rohingya che sono degli apolidi. Per questo sono stati oggetto di discriminazioni, violenze e persecuzioni e dagli anni 80 in avanti ci sono stati vari flussi di questa popolazione verso il Bangladesh.
L’ultima appunto sei anni fa, nell’agosto del 2017, quando scapparono più di 700mila persone”.
Dove vivono ora i rifugiati e quanti sono?
“Attualmente si trovano in un grande campo profughi in Bangladesh, uno dei più grandi del mondo, che misura circa 23 chilometri quadrati. Vi risiedono circa un milione di rifugiati Rohingya.
Il 75% è composto da donne e bambini. Il campo è seguito dal governo del Bangladesh, dalle agenzie delle Nazioni Unite, da varie ONG presenti nell’area e da alcune comunità di bengalesi.
C’è stato uno sforzo della popolazione locale di aiutare i rifugiati.
E’ stato creato questo enorme campo che in realtà poi è costituito da 33 campi, tutti a Cox’s Bazar, una regione del Bangladesh sul mare fondamentalmente nota per essere un’area turistica per i bengalesi stessi”.
Come è fatto Cox’s Bazar?
“Un’area di questa ampia regione turistica è stata destinata anni fa a questo enorme campo che però in realtà, per il numero di persone che ci vivono, non è tanto grande.
Inoltre, non nasce nelle migliori condizioni ambientali perché quella è un’area fortemente soggetta agli effetti dei cambiamenti climatici: è posta sotto il livello del mare ed è interessata dai monsoni e quindi gli allagamenti e gli smottamenti del terreno sono molto frequenti.
Inizialmente molte case venivano costruite con il legno della foresta intorno a quest’area, quindi c’è stato un grande disboscamento che ha provocato tutta una serie di conseguenze tra cui frane e smottamenti. Almeno una volta all’anno, i rifugiati erano costretti a ricostruire le loro case. Adesso però le cose sono cambiate”.
In che modo?
“Recentemente l’Unhcr che gestisce il campo insieme all’OIM e al governo del Bangladesh sta fornendo ai rifugiati delle bombole, quindi dell’energia per cucinare.
Questo fa sì che non serva più raccogliere la legna per cucinare e si è fermato il disboscamento. Anzi, adesso abbiamo cominciato anche a piantare nuovi alberi proprio per fermare il problema degli smottamenti che danneggiavano le abitazioni”.
Come è la situazione dei rifugiati nel campo?
“In generale le condizioni dei rifugiati sono difficili. Sono sei anni che i Rohingya vivono lì e non sono state trovate ancora delle soluzioni che diano loro stabilità quali il ritorno nel loro paese di origine o un’integrazione vera e propria. I Rohingya non vengono riconosciuti come rifugiati né dal Bangladesh, né dal Myanmar. Sono dunque apolidi, senza la cittadinanza di nessuno Stato. Quindi la loro situazione è veramente drammatica, terribile: nonostante tutti gli sforzi di aiutarli all’interno del campo, l’incertezza verso il futuro e l’assenza di soluzioni regolari, li lascia in una situazione di sofferenza”.
Quali sono le difficoltà pratiche nel campo?
“Le difficoltà sono di ogni tipo: l’ho sperimentato quando ho lavorato nel campo di Cox’s Bazar. Ci sono migliaia di persone – tra cui la maggior parte sono donne e bambini – che dipendono quasi del tutto dall’assistenza umanitaria, quindi dalle organizzazioni internazionali: le agenzie dell’ONU, le ONG, il Governo.
L’emergenza principale è il cibo che è un bene primario.
Ci sono inoltre poche risorse per le altre esigenze come la salute, il settore dell’educazione e soprattutto la formazione professionale.
Unhcr sta cercando di portare avanti nel campo la formazione lavorativa dei profughi affinché diventino autosufficienti e possano avere una speranza per il futuro.
Sia dunque per rendersi utili nella comunità dove vivono attualmente, sia per avere un titolo o una capacità lavorativa se un giorno dovessero scegliere di tornare a casa. In maniera sicura e volontaria.
Abbiamo fatto diversi corsi di formazione per diventare pompieri.
Tanto è vero che l’ultimo incendio è stato spento anche grazie all’aiuto dei rifugiati e grazie al training non ci sono stati morti.
Mentre in passato in situazioni simili c’erano sempre parecchie vittime.
Poi ci sono i corsi per la falegnameria, per la panificazione o per il cucito.
Un’altra azione che abbiamo portato avanti è la produzione di borse di giunco che hanno sostituito nel campo le buste di plastica altamente inquinanti.
Con il loro lavoro i rifugiati si rendono utili alla società. E ne traggono un benessere anche dal punto di vista psicologico. Questo conferma inoltre che i rifugiati in ogni parte del mondo vorrebbero rendersi utili e non essere passivi ricevitori di aiuti”.
Cosa l’ha colpita di più nel vivere in quel campo?
“Mi ha colpito il peso dell’incertezza sul futuro di così tante persone.
Il campo è pieno di vita: ci sono tanti bambini, c’è una grande resilienza tra la popolazione. Ma l’incertezza del futuro e l’assenza di soluzioni durature hanno un impatto psicologico pesantemente negativo e non alimentano la speranza di poter cambiare il proprio destino.
Ci sono dei rifugiati nel campo che hanno delle competenze molto forti.
Ad esempio alcuni hanno fatto delle fotografie del campo che poi hanno vinto pure dei premi.
I rifugiati non sono solo dei ‘poveretti senza speranza’, ma portano delle competenze.
Hanno subito purtroppo delle violazioni dei loro diritti e sono stati costretti a scappare, ma è gente che ha una vita, una dignità, ha delle capacità da mettere a frutto.
Il rifugiato può arricchire la società in cui vive”.