È l’ennesima bandiera bianca alzata dalla politica nei confronti dei potentati economici che spadroneggiano impuniti nella nostra città.
Qualche mese fa abbiamo riflettuto insieme sull’utilizzo del debito per provocare una guerra contro la parte più debole della nostra società: i disinvestimenti pubblici su sanità, istruzione, ammortizzatori sociali ed economici hanno rafforzato l’esclusione e spesso anche l’espulsione di parte della popolazione dalla nostra città.
Grazie alla narrazione di un debito insanabile a cui tutto va sacrificato, si è scelto coscientemente di bloccare ogni spesa o investimento in autonomia per accelerare delle dinamiche sociali e per indirizzare il cambiamento della città nelle direzioni desiderate dalle élites: un’aggressione di tipo coloniale in cui le persone vengono saccheggiate e spogliate sia dei propri beni materiali sia della propria identità culturale, messa a rendita per attirare investimenti finanziari.
Una città trasformata in “brand” come la nostra infatti si nutre della storia, della socialità, di tutta la ricchezza di immaginario che viene creata nell’interazione delle persone nei nostri quartieri, per poi edulcorarla e rivenderla. L’operazione più “violenta” in quest’ottica è stata quella ancora in corso nell’area mercatale di Porta Palazzo: espropriata l’immagine di “mercato per vocazione” ed estromessa anche con la forza la parte più povera di esso, il grande mercato di Porta Palazzo vive oggi di fallimenti continui delle sue parti ristrutturate a spese della collettività, come l’area ribattezzata “Mercato centrale”.
Il confronto tra lo stanziamento riservato agli oneri finanziari (248 milioni), a fronte della capacità di indebitamento autonomo per gli investimenti per cui sono stanziati solo 10 milioni, ci mostra come la nostra città non abbia più alcuna potenzialità di sviluppo autonomo.
Non investire significa infatti sia non avviare nuovi progetti per la città, che si tratti di edificare nuove strutture o di semplice gestione delle esistenti, sia imporre, invece, tagli continui alla spesa corrente.
Su questo aspetto possiamo riportare almeno due esempi, presenti nei documenti che abbiamo esaminato.
Il primo è il blocco di nuove assunzioni, che prosegue nel comune di Torino, ma non in altre amministrazioni di enti locali o no.
Dal punto di vista del personale dipendente, per ogni 4 pensionamenti abbiamo una sola assunzione, motivo per cui il comune continua a estendere l’esternalizzazione di ogni tipologia di servizio (culturale, sociale, educativo ecc.), oppure assume, a caro prezzo, tramite le agenzie di lavoro interinale. Agli inizi del millennio il comune di Torino contava 12.000 dipendenti, che vent’anni dopo si sono ridotti a 7.000: ma l’assessora al Bilancio quest’anno si è vantata di aver risparmiato oltre 50 milioni dagli stipendi, evitando però accuratamente di dichiarare quanto costa invece l’affidamento ai privati dei servizi che il comune non riesce più a fornire per mancanza di personale.
Il secondo esempio ci mostra come i tagli ricadano sul cittadino: nel 2024 viene previsto che l’82% del costo preventivato per la ristorazione scolastica sia coperto direttamente dalle famiglie. Insomma il comune, non avendo soldi da investire, sceglie di far pagare alle famiglie i pasti delle proprie figlie e dei propri figli.
Sono queste cifre che ci dimostrano come tutti gli “sforzi” economici della città siano legati al pagamento degli interessi su mutui e derivati e alla restituzione delle quote di capitale degli stessi mutui, invece che agli investimenti per il futuro e per rispondere ai bisogni della città: è evidente come ciò possa succedere solo per una precisa volontà politica dell’amministrazione comunale targata Lo Russo, ma anche di tutte le precedenti maggioranze.
Correva infatti l’anno 2003 quando il comune di Torino ha iniziato a (s)vendere il proprio patrimonio immobiliare, prima per reperire risorse da letteralmente divorare durante le due settimane olimpiche del 2006 e poi, in seguito a quell’evento, per ripagare il buco di bilancio che si andava creando, oggi salito all’astronomica cifra di quasi 3 miliardi di euro.
Ora, che sono passati vent’anni, con i dati alla mano possiamo fare una prima valutazione sia economica sia politica di questa scelta: e i risultati non sono incoraggianti.
Un primo dato che va evidenziato è l’incasso avuto dalle vendite del patrimonio immobiliare comunale, che si aggira intorno al 1,5 miliardi di euro, senza che però questo incida sulla consistenza del debito. Certo, per la prima volta dopo anni, nel 2023 assisteremo a una sua diminuzione: ma di soli 500 milioni rispetto al 2010. Con questi ritmi ci vorranno “solo” 78 anni per ripianare il buco nel bilancio.
Il restante miliardo è stato pertanto sacrificato per pagare gli interessi sui mutui, sui derivati e sui prestiti per la liquidità di cassa. Per esempio i 16 contratti derivati ancora attivi per il Comune di Torino, sono costati nel 2023 circa 9 milioni di euro, con una sensibile riduzione dovuta alla crescita del costo del denaro (che comunque ha comportato, a specchio, un aumento dei tassi d’interesse sui mutui per coprire la spesa corrente), ma da quando sono attivi (la maggior parte risale al 2006) sono però, a fine del 2022, già costati alle casse comunali oltre 165 milioni di euro.
Ma c’è un altro aspetto economico di questa svendita che è preoccupante: avendo il comune di Torino liquidato una buona parte dei propri beni immobili, il loro valore non è più iscrivibile a bilancio: e questo ha comportato un impoverimento del Comune medesimo sia in termini assoluti sia per la riduzione della solvibilità di prestiti e mutui finanziari nei confronti delle banche.
Quando invece il Comune deve incassare non ha miglior successo: è di circa 100 milioni infatti il buco di bilancio annuo provocato dalla mancata riscossione di tributi (TARI, IMU etc.) e di multe, che anche nel 2023 sono state cancellate perché la SORIS, affidataria del servizio riscossioni, si è dimostrata totalmente incapace di recuperare questi crediti.
Vi è inoltre un altro indicatore negativo da segnalare: è questo attuale il primo bilancio di previsione in cui il Comune stanzia una cifra (25 milioni) per la copertura di spese derivanti da condanne a seguito di cause giudiziarie intentate contro il Comune. La comparsa di questa nuova voce di spesa ci pare indicare una incapacità del Comune, che non riesce a difendersi in maniera adeguata nei tribunali civili e penali, ma anche la tendenza all’incuria generalizzata nel trattare la cosa pubblica, che provoca così tante cause perse.
Va tuttavia segnalato che quest’anno la nostra città ha potuto realizzare un minimo di lavori pubblici di recupero e mantenimento grazie al finanziamento statale giunto con un accordo per alleviare il debito (ricordiamo che Torino è il secondo comune italiano con il debito pro capite più alto, dopo Palermo). Un altro finanziamento da 1,8 miliardi è invece in arrivo per la costruzione della linea 2 della metro e ci sono poi anche i denari a fondo perduto del PNRR, con cui sono finanziate una serie di opere pubbliche. Ma ci vuole ben altro per risalire la china del dissesto economico. E non rassicurano le promesse di grandi investimenti attratti sulla città dalla deregolamentazione urbanistica del prossimo nuovo Piano Regolatore.
Torino può rinascere solamente se si oppone alla guerra coloniale del debito, al giogo della finanza, al ricatto della rendita fondiaria parassitaria.