18 anni fa, sotto la stessa neve, percorrendo le stesse strade, veniva liberata la piana di Venaus. 18 anni fa molte e molti di noi giovani, che oggi apriamo questo splendido corteo, non eravamo neanche nati o eravamo troppo piccoli per ricordare quella giornata, che ci viene ancora oggi narrata come si farebbe per qualcosa di epico.
In quella storica giornata, solo due giorni dopo essere stati sgomberati e picchiati brutalmente durante la notte del 6 dicembre 2005 a Venaus, i nostri genitori, i nostri professori e oltre 50.000 valsusini riuscirono, come contemporanei partigiani, a sfondare i cordoni della polizia. Scendendo da ogni lato della montagna riuscirono a buttar giù le reti e riprendersi quell’area in cui avrebbe dovuto sorgere il primo grande cantiere della Torino-Lione. Riuscirono ad aver ragione delle truppe d’occupazione, che per qualche anno infatti non sarebbero più tornate.
Oggi quell’area in cui avrebbero voluto portare distruzione e devastazione è tornata un’area verde. Dove avrebbe dovuto esserci un mortale cantiere ora viene organizzato un festival in cui ogni estate migliaia di persone vengono ad ascoltare musica e dibattiti e a trascorrere momenti di altissima felicità, fuori dalle distrazioni quotidiane e a contatto con quella natura che avrebbero voluto portarci via.
Purtroppo però ancora oggi, nonostante tutti gli anni che sono passati da quella giornata, eccoci costretti a ripercorrere le stesse strade non soltanto ricolmi della gioia dei ricordi, ma provando la stessa identica rabbia di allora.
Nonostante trent’anni di storia, centinaia di articoli scientifici che dimostrano la totale inutilità e nocività dell’opera, nonostante la bocciatura da parte della Corte dei Conti europea e decine di governi che si sono susseguiti, tutti ugualmente determinati ad attribuire al Tav l’assoluta priorità, ad oggi non è ancora stato scavato neanche un metro di tunnel di base. Nonostante tutti siano a conoscenza dell’inutilità di quest’opera, la nostra valle è diventata oggi un terreno di scontro ideologico, in cui dimostrare che un popolo di poche persone montanare non potrà mai battere il potere dei decisori, anche se in gioco ci sono le loro vite e il territorio in cui abitano e sono cresciute.
La lotta NoTav resta (purtroppo) ancora oggi più attuale che mai. Questo treno oggi, ancor più che negli anni ‘90 in cui venne proposto, è insostenibile non solo da un punto di vista economico e sociale, ma soprattutto a livello ambientale, in un periodo storico in cui la crisi climatica appare sempre più inarrestabile.
Attualmente in Val di Susa ci sono ben quattro cantieri aperti (Caselette, San Didero, Chiomonte e Salbertrand) con conseguenze devastanti per quelle che prima del Tav erano aree verdi e montuose.
Mentre ci dicono che quest’opera servirebbe a togliere i camion dalle strade, viene devastato il territorio di San Didero per far posto a un nuovo autoporto (smantellando quindi quello già esistente a Susa) che verrà adibito proprio al parcheggio di questi ultimi. Ne vediamo a centinaia di camion in Val di Susa: mai visti così tanti camion che ogni giorno salgono e scendono per le statali trasportando il materiale di risulta dall’interno delle montagne.
La costruzione del Tav comporterà la perforazione di 57 km. di montagna su due direzioni, oltre a diverse centinaia di km, per le discenderie laterali e le uscite di sicurezza. Tutto ciò vorrebbe dire l’emissione in atmosfera di oltre 10 milioni di tonnellate di CO2, equivalente alla totalità delle emissioni create da tutte le auto circolanti in Piemonte nel corso di un mese – che secondo le previsioni di chi propone l’opera verrebbero recuperate in oltre venticinque anni dopo il suo completamento.
Vorrebbe dire il disboscamento di centinaia di migliaia di metri quadri di boschi, con la conseguente estinzione di alcune specie animali, cosa peraltro già successa per la farfalla Zerinthia Polixena durante le ultime requisizioni in val Clarea.
Vorrebbe dire, in periodo di siccità, la deviazione e il sicuro prosciugamento delle falde acquifere sotterranee, come è già successo nei cantieri del lato francese, che hanno lasciato interi Comuni senz’acqua corrente per diverse settimane.
Vorrebbe dire la liberazione di volumi incalcolabili di polveri sottili cancerogene in atmosfera.
Tutto questo non è accettabile, soprattutto considerando che i soldi per la messa in sicurezza dei territori non ci sono mai, e che dopo ogni incendio o pioggia intensa dobbiamo contare i dispersi e i feriti, come è successo per l’ennesima volta la scorsa estate a Bardonecchia.
La nostra lotta ormai non è più solo contro questo treno “ad alta velocità”, ma contro tutto il sistema e la filosofia di sviluppo che esso rappresenta. Un sistema in cui tutto è acquistabile o può essere sacrificato in nome del profitto economico. Un sistema che vorrebbe far viaggiare le merci tra Stati il più velocemente possibile, ma che sugli stessi confini non esita ad ammazzare coloro che cercano di attraversarli alla ricerca di un futuro migliore, solo perché sprovvisti di documenti. Un sistema che sceglie di arricchire i pochi soliti noti, anziché investire sulla sanità, sull’istruzione e sul lavoro da cui trarrebbero beneficio tutti quanti. Un sistema che reprime e arresta brutalmente chiunque cerchi di opporsi e contestarlo.
Non siamo più disposti ad accettare che pochi burocrati chiusi nei loro uffici calpestino i nostri diritti e il nostro futuro.
Come i nostri nonni e bisnonni liberarono questa valle e queste montagne dagli occupanti fascisti, noi lo faremo con i signori della Telt & Co. Perché possano esserci altre 10, 100, 1000 giornate come quel memorabile 8 dicembre del 2005, che anche quest’anno siamo riusciti a ricordare al meglio con questa partecipatissima marcia.
Foto di Mario Luca Bariona