Il cambiamento climatico svela una delle più gravi ingiustizie: chi ha contribuito meno al degrado ambientale soffre di più. In una tendenza preoccupante, quasi il 60% delle popolazioni costrette alla fuga nel mondo si trova nei Paesi più vulnerabili all’impatto dei cambiamenti climatici, come Siria, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Afghanistan e Myanmar. A dimostrazione che crisi climatica e crisi umanitaria sono due facce della stessa medaglia. A ricordarlo sono Legambiente e UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, che nel nuovo report “Un’umanità in fuga: gli effetti della crisi climatica sulle migrazioni forzate” e, in vista della giornata mondiale dei diritti umani del 10 dicembre, fanno il punto su quanto sta accadendo oggi nel mondo, segnato da conflitti che non trovano pace e dalla crisi climatica che avanza sempre di più causando danni all’ambiente e colpendo in maniera sproporzionata le persone in situazione di vulnerabilità perché già costrette alla fuga da guerre e violazioni dei diritti umani. I cambiamenti climatici, inoltre, esacerbano le crisi, provocando nuovi sfollamenti e ostacolando i rientri in sicurezza.
“La crisi climatica è una crisi umanitaria. Oltre la metà dei rifugiati e degli sfollati di tutto il mondo risiede nei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico. Dopo gli orrori della guerra e della violenza, i rifugiati sono costretti ad affrontare anche le avversità indotte dal clima, come siccità, inondazioni e temperature estreme per sopravvivere. Non solo, sempre più spesso il cambiamento climatico è alla base dei conflitti che costringono le persone alla fuga. Per UNHCR è urgente affrontare il crescente impatto che il cambiamento climatico ha sulle persone in fuga, e siamo felici di collaborare con Legambiente per aumentare la sensibilità su questo tema così importante” ha dichiarato Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino.
Uno studio della Stanford University, pubblicato nel 2019, ha intrecciato i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 ed il 2010. Ed è emerso che tra i paesi con economie in via di sviluppo, il PIL pro capite si è ridotto tra il 17% ed il 31% per effetto del riscaldamento globale. Dividendo poi tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si è rilevato che tra il primo e l’ultimo gruppo il divario economico oggi è del 25% maggiore di quello che ci sarebbe stato in assenza del riscaldamento globale. L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) stesso, poco prima della pandemia, dichiarava che “Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi 50 anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà. La crisi ambientale potrebbe portare a oltre 120 milioni di indigenti in più entro il 2030 e avere l’impatto più grave nei paesi con economie meno sviluppate.” Le stime dell’IPCC, inoltre, ci riportano che approssimativamente tra 3 miliardi e 300 milioni e 3 miliardi 600 milioni di persone – oltre il 40% della popolazione mondiale – vive in contesti di estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Cosa che avviene in un evidente e fortissimo scarto di responsabilità nelle emissioni climalteranti: l’IPCC ricorda che a livello globale, il 10% delle famiglie più ricche contribuisce a circa il 40% delle emissioni globali di gas serra, mentre il 50% più povero contribuisce per meno del 15%.
La crisi climatica colpisce tutti, ma non tutti allo stesso modo. Questo è l’ineludibile punto di partenza per ogni politica di contrasto che voglia essere giusta. I numeri parlano chiaro: sono oltre 114 milioni le persone costrette alla fuga da guerre e violenze a livello globale e, secondo le stime dell’UNCHR, quasi il 60% di loro si trova nei Paesi più vulnerabili all’impatto dei cambiamenti climatici, come Siria, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Afghanistan e Myanmar. Dagli orrori della guerra e delle persecuzioni alla dura realtà delle avversità indotte dal clima, le popolazioni costrette alla fuga sono spesso costrette a confrontarsi con questo doppio onere per sopravvivere. Preoccupanti anche i dati del 2022, riferiti in particolare agli effetti che gli eventi meteorologici estremi comportano. In base alle stime dell’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), solo nel 2022 si è assistito a oltre 32 milioni di nuovi sfollati a causa di disastri, il 98% dei quali legati ad eventi atmosferici come inondazioni, tempeste e siccità. Se la crisi climatica procede con questo passo, secondo il rapporto “Groundswell” della World Bank (2021), entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa delle conseguenze del cambiamento climatico. Il numero più alto riguarderà l’Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone, pari al 4,2% della popolazione totale; 49 milioni in Asia orientale e nell’area del Pacifico, 40 milioni in Asia meridionale. In Africa settentrionale si prevede che ci sarà la più alta percentuale di migranti climatici, 19 milioni di persone, pari al 9% della sua popolazione, a causa principalmente della riduzione delle risorse idriche.
Il Report si sofferma su alcune testimonianze, come quella di Sambo Maiga, agricoltore nel villaggio di Taouremba nel Burkina Faso, che racconta come la sua terra sia cambiata a causa dei cambiamenti climatici. Nel 2018, Sambo Maiga parte per la vicina Costa d’Avorio, per poi tornare a casa dove l’esplosione di tensioni per le risorse e il potere tra vari gruppi armati lo costringe a fuggire con la sua intera famiglia, ancora oggi è in cerca di sicurezza. C’è anche la testimonianza di Madi Keita, 35 anni di Mali, che ha lasciato il suo Paese nel 2008 all’età di 19 anni. “In Mali manca l’acqua e chi non ha acqua non ha la vita. Senza contare la sistematica assenza del rispetto dei diritti umani che caratterizza le politiche e le azioni del governo”. Nel 2009 arriva in Libia, anche qui le condizioni politiche e sociali precipitano e Madi decide di andare in Europa. Nel 2011 arriva in Sicilia, qui inizia una nuova vita, prende il diploma di terza media qui in Italia e si forma per diventare mediatore interculturale. E ancora Jules Bitwayiki Mende, fuggito dalla Repubblica Democratica del Congo a causa dell’acuirsi delle violenze nella regione. Raggiunge con la sua famiglia l’Etiopia dove vengono registrati come rifugiati e ospitati nel campo di Sherkole. Grazie alla sua determinazione, qualche anno dopo si iscrive all’Università di Gambella dove si appassiona al tema della resilienza ai cambiamenti climatici. Con il programma University Corridors dell’UNHCR, ha ricevuto una borsa di studio per frequentare un Master presso l’università di Firenze, dove si è laureato a giugno 2023 in Natural Resources Management for Tropical Rural Development.
“La complessa relazione che esiste tra crisi climatica e migrazioni, spiega Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente, deve essere al centro dell’agenda politica internazionale, perché è un fenomeno in forte crescita, come evidenzia il nostro rapporto.” Un Rapporto che scatta una fotografia preoccupante su cui è fondamentale intervenire con azioni non più rimandabili. Per Legambiente e UNCHR occorrono cooperazione e dialogo internazionale e più fondi per mitigazione e adattamento agli effetti della crisi climatica, in particolare ponendo attenzione al sostegno delle persone costrette alla fuga e alle comunità ospitanti, a partire dai gruppi più vulnerabili. Son queste le priorità da mettere urgentemente al centro di un’agenda internazionale comune che non può più essere rinviata.
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