La pratica teatrale di Laminarie e il pensiero in atto e pratica della filosofa francese
Dal 29 novembre 2023 l’area di verde pubblico nel quartiere bolognese del Pilastro porta il nome della filosofa francese Simone Weil grazie all’iniziativa della Compagnia Laminarie – fondata nel 1994 da Febo Del Zozzo e da Bruna Gambarelli, attiva dal 2009 nel contesto teatrale del DOM/Cupola in convenzione con il Comune di Bologna – e grazie al confronto e alla cooperazione con le realtà territoriali, associative e istituzionali.
Alla proposta di intitolazione hanno contribuito diverse azioni di Laminarie ispirate al pensiero e all’opera di Simone Weil, in particolare molteplici attività teatrali, performative e musicali destinate a un pubblico eterogeneo e la cura dell’area verde adiacente al teatro, che va dalla piantumazione di alberi alla realizzazione di hotel degli insetti, da un giardino dedicato a quante/i hanno contribuito alla storia culturale e sociale del rione fondato nel 1966 al posizionamento di leggii illustrativi sulla storia del quartiere e di arazzi… Hanno annunciato l’omaggio a Simone Weil diversi manifesti di grande formato sull’intero territorio cittadino al fine di creare l’installazione temporanea Saluti dal Pilastro e una proposta di libri dell’autrice e/o dedicati alla sua figura nelle biblioteche pubbliche in collaborazione con il Settore Biblioteche e Welfare culturale del Comune di Bologna.
Nel pomeriggio del giorno della cerimonia di intitolazione si sono succedute diverse manifestazioni: dalla rappresentazione di uno spettacolo di fiabe dedicato all’infanzia all’inaugurazione di un leggio dedicato alla filosofa alla presenza dei rappresentanti istituzionali e di Giancarlo Gaeta (curatore di gran parte delle edizioni italiane degli scritti di Simone Weil); dalla visita a Unici e alle Cartoline da un luogo memorabile fino alla partecipatissima conclusione serale all’interno del Dom dedicata a Pagine scelte, estratte liberamente dalle opere della filosofa da cittadine e cittadini di ogni età e accompagnate da interventi sonori (http://www.domlacupoladelpilastro.it/).
È stupefacente l’imprevedibile intreccio compositivo, scompositivo e ricompositivo di fili e nodi che rimbalza dal percorso di Laminarie nel corso dei decenni e che evoca – in modi ora espliciti, ora sotterranei – la trama per molti versi imponderabile dell’opera di Simone Weil, che svetta nel panorama filosofico del XX secolo. Sul solco della via teatrale intrapresa quasi trent’anni fa da una famiglia d’arte (Bruna Gambarelli, Febo Del Zozzo e le due figlie Sofia e Agnese) permangono come tracce indelebili l’originaria vocazione al contatto e l’irradiazione emanata da quell’insieme di pensieri intessuti di immagini e parole ardenti (da attenzione a vuoto, da forza a misura, da corpo a «bestia sociale», da gravità a linfa, da desiderio a necessità, da equilibrio a ritmo, da albero a seme) che la filosofa francese ha riportato a nuovo vigore: da entrambe è scaturita l’invenzione del DOM, «sede operativa della compagnia, che ne ha fatto un luogo in cui la ricerca teatrale è strumento di relazione con gli altri linguaggi artistici» (arti visive, architettura, cinema, letteratura), «con un territorio ricco di culture diverse» e con altre realtà culturali europee e extraeuropee.
In una Terra-globo non più riducibile a una mappa, in cui è quindi cambiata la sintassi spaziale e «tutti i punti possono diventare centro», come sostiene il geografo Franco Farinelli, viene meno dal punto di vista topologico la distinzione nelle nostre città tra periferia e centro e ne deriva che il Pilastro è uno dei tanti centri di Bologna e che il DOM occupa a sua volta uno dei centri del quartiere. Questo modello di pensiero che scompagina e rovescia logica e prospettiva alle quali per abitudine e per pigrizia mentale continuiamo ad aggrapparci si riverbera sul processo dell’opera della compagnia teatrale Laminarie e ne illumina la pratica di abitare un luogo come il DOM, che è un teatro, un luogo d’arte, un presidio culturale all’interno di un territorio, come chiarisce Febo Del Zozzo in diversi suoi interventi.
A questo proposito la drammaturga Renata Molinari, in una conversazione con i due fondatori di Laminarie, li incalza sulla questione centrale: che cos’è dunque l’opera teatrale? quali segni distintivi permettono di afferrare il senso della pratica di abitare un luogo da parte di una compagnia teatrale?
Bruna Gambarelli coglie, in un testo intitolato Un senso nuovo, diversi aspetti della specificità del fare teatro da parte di Laminarie che potrebbero suggerire se non un tentativo di risposta almeno una riformulazione delle domande: vi si mette in luce anzitutto il contatto diretto con la realtà che «brucia le conoscenze», e «brucia anche il teatro, oppure lo determina in un luogo profondissimo, come era chiaro a Simone Weil, perché ha a che fare con la verità, e si trova alla radice stessa dello stare in scena»; si prosegue ponendo l’accento sulla dimensione pubblica del teatro, considerata «un’arte che più di ogni altra richiede l’istaurarsi di una relazione umana», e che «si manifesta solo se siamo in grado di sospendere il pensiero, di accordarci – nella convenzione teatrale – con lo stato di vuoto», e poiché impone la «necessità di seguire un testo, non di precederlo con il pensiero», obbliga a «raggiungere quella facoltà di attenzione di cui parla Simone Weil».
La didattica di Louis Jouvet – insieme alle esperienze teatrali di Dalcroze e Copeau, tutti e tre amati dalla filosofa –, sottolinea Gambarelli, «recupera infatti la concezione weiliana dell’attenzione, che egli al pari di molti altri teatranti dopo di lui sente congeniale e vicinissima all’idea che l’attore nutre della ricettività e della permeabilità dinanzi al personaggio e al testo teatrale […] Stare nel teatro oggi accogliendo la lezione essenziale e rigorosa di Jouvet significa attuare modalità di lavoro che entrino in relazione con la città e con i suoi spazi architettonici, ma anche con le donne e gli uomini che vivono in un territorio specifico»; in fedeltà all’opera artistica, stare nel teatro comporta altresì la ricerca di una lingua che «non si chiuda in una confezione» e l’apprendistato a una ospitalità tale da accogliere gli «sguardi delle sconosciute e degli sconosciuti senza scivolare nella condiscendenza», ponendosi in ascolto e captando «le domande che le persone e i luoghi esprimono».
Proviamo a seguire queste tre direttrici e a rimarcarne gli sviluppi alla luce dell’omaggio odierno a Simone Weil: contatto con la realtà-verità-stare in scena; relazione umana-vuoto-attenzione; relazione con i luoghi e chi li abita-ospitalità-ascolto.
La prima sembrerebbe coinvolgere le fasi preparatorie all’azione scenica, l’azione scenica vera e propria, i corpi degli attori. Per la seconda si potrebbe parlare di vero e proprio addestramento dell’umano singolare – corpo, mente, anima – alla sospensione di ogni brusio interiore, all’abbandono dell’io e quindi all’incontro con l’altro/a fuori di sé e con la propria alterità, fino all’accettazione del vuoto, talora coronata da bagliori insondabili di attenzione che per gradi e per piani sovrapposti aprono varchi e passaggi nell’impersonale. La terza direttrice si gioca tutta all’aperto nella relazione con il territorio circostante il Dom e con le/gli abitanti, da un lato nella cura dell’ambiente esterno e dall’altro nell’ascolto e nella ricezione di ciò che liberamente giunge come desiderio di bellezza, come travaso di difficoltà del vivere nell’aspirazione alla giustizia, come memoria di storie di quante/i in quel quartiere hanno vissuto e lottato per una vita degna e dignitosa e che altrimenti andrebbero fatalmente perdute.
Non so se sia un azzardo affermare che con le attività teatrali, performative e musicali, con la manutenzione e cura del verde, con l’affissione dei grandi manifesti ovunque e l’installazione temporanea dei Saluti dal Pilastro e tutte le altre iniziative annesse e connesse all’omaggio a Simone Weil, la compagnia Laminarie entra in una fase ulteriore della sua produzione: la processualità del fare teatro si disvela e disvela la realtà; le molteplici sequenze nel tempo e nello spazio mostrano l’interrelazione e il condizionamento che stringe l’una all’altra, sino a formare un tutto effuso e diffuso che attrae grazie alla potenza delle forze dinamiche interagenti delle sequenze al suo interno; l’opera teatrale risulta non più circoscrivibile e l’azione scenica che si svolge sotto la Cupola nello spazio del DOM diviene una invenzione temporanea di continuo innovabile e rinnovabile che si avvale dell’apporto delle lettrici e dei lettori dell’opera di Simone Weil.
A questo punto si potrebbe tornare a riformulare la questione che lascio aperta a Bruna Gambarelli e a Febo Del Zozzo: che cosa ne è dell’opera teatrale e delle sue misure? quali segni distintivi permettono di afferrare il senso della pratica di abitare un teatro in diversi luoghi non disperdendo la «pratica dell’occupazione e dell’ornamento spaziale, dove ormai è desiderabile riformulare anche il calendario» – come suggerisce Claudia Castellucci? come interagisce la pratica di ospitare altre arti, altri sguardi, altre visioni, altre storie, altri soggetti, con l’arte di una compagnia che concepisce il teatro come un fuoco intorno al quale sedere con chiunque si accosti alla sua esperienza e che «non può esistere senza la città»? Quali ne sono gli esiti e in che modo incidono sulle azioni teatrali?
In tempi così spietati e frenetici in cui circolano in modo ossessivo parole quali diritto, democrazia e persona, che come insegna Simone Weil appartengono alla regione mediana, e in quanto tali alla «bestia sociale», e che per questo vengono di continuo contraddette dalla loro negazione di fatto, la ricchezza del deposito di azioni teatrali messe a nostra disposizione dalla compagnia Laminarie ha contribuito e contribuisce indubbiamente sia a erodere il consueto modo di concepire la condizione umana additando possibili vie d’uscita dalla prospettiva egocentrica, sia a disinnescare lo spirito bellicoso o il piagnisteo rivendicativo all’opera nel mondo con i risultati disastrosi sotto gli occhi di tutti, sia a curare le ferite a lenire l’afflizione che grava su donne e uomini, e soprattutto sui più sventurati, con il calore delle relazioni (ascolto, sguardo e contatto) e del riconoscimento dell’altro/a nella sua interezza. In definitiva la pratica teatrale di Febo Del Zozzo e Bruna Gambarelli non solo si ispira al pensiero in atto e pratica di Simone Weil, ma ne sperimenta la traduzione e la traslazione nel mondo e sul mondo scommettendo fuori del territorio del Pilastro per poi riportare chi lo desidera sotto la Cupola del Dom. Nel gioco delle azioni e dei movimenti in scena e fuori scena donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini acquisiscono in modo sempre più ravvicinato il senso nuovo di una rappresentazione che è relazione e che si accorda a quell’aspirazione alla giustizia, alla verità, alla bellezza, che sono «sorelle e alleate» (La persona e il sacro).
Bibliografia (in ordine cronologico)
Simone Weil, Quaderni, a cura di Giancarlo Gaeta, voll. I-IV, Adelphi, 1982-1993.
Laminarie, Tragedia e fiaba. Il teatro di Laminarie 1996-2008, a cura di Bruna Gambarelli e Claudio Meldolesi, Titivillus, 2008.
Simone Weil, La persona e il sacro, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, 2012.
Travasi. Conversazione con Renata Molinari, in Ravvicinamento. Il teatro di Laminarie 2009-2013, a cura di Federica Rocchi,, Laminarie, 2014.
Bruna Gambarelli, Un senso nuovo, in Abitare la vita, abitare la storia. A proposito di Simone Weil, a cura di Maria Concetta Sala, Marietti, 2015.
Franco Farinelli, Il senso del segno del segno, in Laminarie, Anni incauti. L’invenzione di DOM la Cupola del Pilastro, a cura di Bruna Gambarelli, Cue Press, 2019.
Claudia Castellucci, Una certa desolazione occorre. Spunti di riflessione per occupare e ornare uno spazio, in Anni incauti, cit.