I “Piani freddo”
Con l’abbassamento delle temperature, diversi Comuni italiani, hanno messo in campo delle azioni – i cosiddetti “Piani freddo” – per far fronteggiare la situazione di rischio, in particolare per i senza fissa dimora.
Si tratta di potenziare l’assistenza ai clochard quanto le temperature invernali mettono a rischio la loro incolumità, insomma, una sorta di dispositivo salvavita che, si spera, si possa trasformare in un’occasione per avviare una relazione con queste persone e accompagnarle verso il reinserimento nella società e, ove fosse necessario, in un percorso di accesso alle cure.
La Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, ha maturato esperienza nell’accoglienza dei senza fissi dimora con la proposta delle ‘Capanne di Betlemme’: i volontari escono a cercare le persone senza fissa dimora e offrono loro un riparo per la notte, una doccia calda e, ultimo ma non per importanza, il calore della relazione umana.
Interris.it ha intervistato Matteo Fadda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII.(vedi foto)
In diverse città sono stati attivati i cosiddetti “Piani freddo” per dare un riparo ai senzatetto. Pensa che questi piani siano funzionali o dovrebbero essere modificati o implementati?
“Nelle città dove, come Comunità Papa Giovanni XXIII, operiamo insieme alle amministrazioni e alle altre associazioni, da un po’ di anni vediamo che si lavoro abbastanza bene.
Penso a Cuneo, Torino, Rimini, Bologna – giusto per citarne alcuni – dove abbiamo i ‘piani freddo’, il problema vero è che ogni anno aumentano le persone che non hanno un casa.
Ci sarebbe bisogno di accompagnare queste persone non solo nel momento di emergenza, ma tutto l’anno.
Le persone povere, che non possono permettersi una casa sono sempre in aumento, quindi i posti messi a disposizione con i piani freddo non sono mai sufficienti.
Bisognerebbe lavorare sulla rimozione delle cause, oltre che intervenire nel momento di emergenza”.
Come Apg23 accogliete i senzatetto nelle Capanne di Betlemme. Sarebbe possibile replicare questo modello anche nelle altre città italiane?
“Credo di sì e penso che ci siano anche le strutture adatte. Non è così semplice, invece, riuscire a trovare le persone che si occupino di questo tipo di accoglienza.
Grazie all’esperienza della nostra realtà associativa, abbiamo capito che affinché tutto funzioni bene, c’è bisogno di qualcuno che scelga di fare questa esperienze: è un ambito di condivisione molto particolare.
Le Capanne di Betlemme dell’Apg23 sono realtà di accoglienza con lo stesso stile familiare delle case famiglia, delle comunità terapeutiche.
Ci sono sempre volontari e membri dell’associazione che vivono lì, insieme alle persone che escono dalla strada. Non si può pensare di accogliere numeri elevati.
Sicuramente, la Capanna di Betlemme è una soluzione e dà una risposta a un’ingiustizia. Ma noi dobbiamo lavorare sulla rimozione delle cause”.
In che modo?
“Non è possibile che le persone che vivono in strada aumentino ogni anno. C’è da fare un lavoro di ridistribuzione delle unità abitative, delle possibilità di lavorare e curarsi. Inoltre, è necessario un accompagnamento per il reinserimento nella società, per un percorso psicologico. La Capanna di Betlemme può essere la risposta, ma non può essere un parcheggio”.
Il Governo da dove dovrebbe iniziare per cercare di rimuovere le cause che portano una persona a dover vivere in strada?
“Non è semplice, anche dal punto di vista del governo, dare una risposta a questa problematica sociale che, purtroppo, si verifica da anni. Credo che sia necessaria una rivoluzione culturale, della capacità di tenuta della società.
Il problema è che siamo sempre più orientati in un mondo dove ci sono persone sole.
L’individualismo, conseguenza del consumismo spregiudicato, è l’effetto di questo nostro modo di governare e gestire. Come Apg23 riteniamo necessario ricostruire il tessuto sociale a partire dalla famiglia, dalle scuole: se il governo facesse delle politiche di investimento su questo, ci sarebbe una risposta che assorbirebbe tutte queste cause di solitudine e abbandona che portano una persona a non avere alternative se non vivere in strada. Quindi, considerare le famiglie e scuole come risorse e non come consumatori o produttori di istruzione. Bisognerebbe ridurre la spesa per l’industria bellica e aumentare quella per il sociale”.
(intervista a cura dell’agenzia stampa Interris.it)