“Palestina Li-be-ra, Palestina Li-be-ra… Free Free Palestine. Free Free Palestine…” “Israele VaiiiViaaa, Pa-le-sti-na TerraMìiia…” e poi “Innntifaaada… Innntifaaada…” / “Isra-e-le… cri-mi-naaa-le. Isra-e-le-cri-mi-naaa-le…” /
E’ un fiume in piena. Una cacofonia di slogan che si inseguono e rafforzano l’un l’altro. Un crescendo di voci rauche (maschili) e urlate (di donne) che continuamente si propaga in un crescendo che solo a tratti lascia spazio agli interventi al microfono dal camioncino che guida il corteo, senza respiro…
Anche per chi come me era già stat* presente martedì scorso al presidio organizzato a caldo in Piazza dei Marcanti, solo pochi giorni dopo i missili di Hamas, la giornata di ieri è stata un’esperienza fortissima e dolorosa, nel giorno in cui dalla striscia di Gaza pervenivano solo notizie di morte e vendetta. Bombardato persino un ospedale, fuggitivi che a piedi cercano di superare chissà quali varchi, diretti verso nessun dove, le loro poche cose ficcate in qualche borsa, i bambini in braccio, gli anziani tenuti per mano, per ore in marcia sotto un cielo che è solo rombar di bombe: la memoria della Nakba rivissuta a decenni di distanza. con tutte le possibili aggravanti, la drammaticità di una situazione umanitaria definita già da giorni insostenibile, l’improponibilità di una deportazione di massa denunciata da tutte le organizzazioni internazionali – e l’aggravante peggiore di tutte, la colpa di trovarsi dalla parte sbagliata della barricata nella percezione della cosiddetta ‘comunità internazionale’, nonostante l’evidenza delle responsabilità in campo israeliano.
Quanti saremo stati? Non meno di 4.000 secondo la questura. Come minimo il doppio secondo gli organizzatori, una coalizione di ben cinque organizzazioni diverse che dovremo imparare a conoscere perché quella di ieri non sarà certo l’ultima manifestazione pro-Palestina a Milano, per cui elenchiamole tutte e poi impegniamoci ad andarle a cercare sui social, per capire almeno un po’ chi sono, che tipo di comunità o sentiment rappresentano, cosa fanno: UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese) , Giovani Palestinesi d’Italia, CPL, API (Associazione Palestinesi d’Italia), Palestinian Women Association in Italy.
Molti gli italiani che hanno risposto all’appello, inizialmente convocato in Piazza San Babila e poi spostato nella meno ‘problematica’ Piazza Duca d’Aosta. E tanti, tantissimi i palestinesi di seconda, o anche terza generazione, ragazze e ragazzi giovanissimi, in marcia insieme a famiglie intere, molte le donne con i passeggini, alcune velate, altre no – e molt* i/le simpatizzanti di nazionalità algerina, egiziana, marocchina. Un campionario di ‘mondo arabo a Milano di cui conosciamo l’esistenza ma che in effetti non vediamo, che distrattamente sfioriamo quando facciamo la spesa al mercato – e che si è fatto sentire.
“Quello che sta succedendo in queste ore è un crimine contro l’umanità e la vostra stampa riesce solo a vomitare bugie… Veniamo bollati come terroristi, come se il terrorismo di cui siamo oggetto da decenni non avesse alcun peso… Noi non abbiano mai voluto la fine del popolo ebreo, noi gli ebrei li abbiamo accolti quando i vostri Paesi li discriminavano con le leggi razziali, li perseguitavano, li mandavano a morire nei campi di concentramento – ma da 75 anni eccoci confinati nella nostra terra, in una striscia lunga solo 45 km che fino a una settimana fa, sebbene da più parti definita la più grande prigione a cielo aperto del pianeta, era la casa di 2 milioni e mezzo di persone – ed è ridotta ora in macerie. Sono decine le risoluzioni dell’ONU che hanno provato a correggere questo evidente abuso del diritto internazionale, senza alcun risultato. Israele ha continuato ad avanzare, a occupare, ad aggredire, a violare i nostri luoghi di culto, a depredare le nostre terre, a terrorizzare le nostre famiglie, le nostre sorelle, i nostri bambini in Palestina, nella più assoluta impunità – ma per la vostra stampa, per i vostri governi, nei vostri talk show, per l’Occidente che si dichiara paladino di democrazia e difensore dei diritti umani, i terroristi saremmo noi, che da decenni stiamo subendo un genocidio in piena regola… Vogliamo giustiziaaaaa! Nessuna pace potrà mai essere possibile senza la giustizia!”
La voce di Jasmine, quella della giovane Palestina (si chiama proprio così, come la terra delle origini che chissà quando potrà rivedere) e di tante altre si alternano al microfono, incalzando il corteo che man mano s’ingrossa, da Piazza Duca d’Aosta fino a Piazza Loreto per poi infilarsi in Via Padova, la zona più multietnica di Milano.
E lì, eccolo sfilare lungo marciapiedi affollati di bottegai, sotto finestre che si aprono per rilanciare anche dall’alto le stesse grida, con i cellulari che riprendono da ogni possibile angolazione quella fiumana di bandiere palestinesi che avanza, seguita da quelle dei sindacati USB e SiCobas, dove la presenza di lavoratori di provenienza araba è numerosa e combattiva. Immagini chissà quanto virali già da ore, in circuiti social che la gran parte di noi può solo immaginare.
Il tutto termina al Parco Trotter. Solo la testa del cortea riesce a trovare posto nella piazzetta davanti all’ingresso, il resto è un continuo rumoreggiar di slogan nelle retrovie, mentre dal pulmino si avvicendano gli interventi conclusivi, tra essi anche quello di Davide Piccardo, direttore della testata di controinformazione on line La Luce, e di altre giovani donne, mentre in tempo reale vengono comunicate le notizie delle morti che nelle ultime ore si sono aggiunte a quelle dei giorni scorsi a Gaza.
“Mentre noi stavamo marciando oggi, è stato bombardato anche un ospedale, letteralmente impossibile quantificare il numero delle vittime, dicono che siamo arrivati a 2.200 ma chi potrà mai dirlo… chi potrà prendersi la briga di contare… e quanti saranno le morti nelle prossime ore…”. E quel che segue è proprio un lunghissimo minuto di silenzio, ogni slogan e rumore si tace mentre tutt* siamo a capo chino.
Ma l’urgenza di denunciare lo stigma, anche culturale, di cui un’intera comunità si sente oggetto soprattutto in queste ore, riprende subito dopo: “Nei vostri talk show, sulle pagine dei vostri giornali, ci tocca leggere che persino un’invocazione come Allah Akbar sarebbe professione di terrorismo, mentre significa semplicemente Allah è Grande, e per noi è come dire ‘Dio esiste, e da lassù è in grado di vedere’. Speriamo davvero che esista un dio che sta guardando a quanto succede e che almeno da lui vi venga restituita un minimo di giustizia prima o poi…”
E stato importante esserci, alla manifestazione in solidarietà per la Palestina che è sfilata ieri per le vie di Milano, non solo come testimonianza di solidarietà, ma per capire almeno un po’ di quello che pensano di noi che palestinesi non siamo. Indubbiamente difficile digerire il livello di risentimento per i tanti double standards, le ipocrisie del nostro mondo. Ma senz’altro importante misurare (e riflettere circa) le distanze di comunicazione che dovremo cercare di colmare d’ora in poi, a livello anche piccolo, nel quotidiano.
Ne ho la prova solo una mezz’oretta dopo, sull’autobus che condivido con un tot di ragazze con la kefia intorno al collo, sicuramente provenienti dalla stessa manifestazione, eccitate nel racconto di quanto si trovano a subire in questi giorni a scuola. Attacco discorso, sembrano felici di raccontare: “L’unica solidarietà che possiamo sperare di ricevere è da altr* compagn* di origini arabe, come noi. Mentre l’ostracismo cresce da parte dei compagni italiani, con manifestazioni anche di bullismo, body shaming, cose così. E quel che è peggio è che i professori si guardano bene dall’intervenire, anche loro schierati nell’equazione Palestina=Hamas=terrorismo come se gli ultimi episodi non fossero il culmine di una sequenza, l’effetto di un contesto, il prodotto di una storia…”
Alla fine scendiamo tutte alla stessa fermata e mi ringraziano non so per cosa, forse per l’ascolto, gli occhi umidi di emozione. Penso alla grazia di non avere ancora raggiunto i livelli di irrecuperabile rabbia che in queste ore tengono di nuovo in ostaggio la Francia (musei chiusi, stato di massima allerta dopo l’ennesimo accoltellamento di un professore), ma temo che anche per noi il tempo stia per scadere, se non ci impegniamo seriamente tutti quanti.