Le proteste in Iran scatenate dall’uccisione della giovane ventiduenne curda Mahsa Amini avvenuta il 13 settembre dello scorso anno, morte avvenuta in seguito alle brutalità inflittele in prigione dove era stata condotta con l’accusa di non aver portato correttamente il velo, non sono mai venute meno nonostante la crudele repressione del regime religioso. Una teocrazia che governa questo paese dalla rivoluzione del 1979 e l’instaurarsi della Repubblica Islamica. I crudeli teocrati governano su una società, quella iraniana, in gran parte istruita, progressista, e occidentalizzata fin dai tempi dello Scià. Il numero dei giovani imprigionati e giustiziati a morte da questo regime crudele è ad oggi di 500 persone, 20.000 sono gli arresti, moltissimi i feriti alcuni gravemente a causa dei proiettili di gomma sparati dalla polizia nelle manifestazioni.
Tutto questo non ha impedito alle giovani donne iraniane, ai giovani che le sostengono, alle madri, ai padri di famiglia, di continuare le loro proteste perché il regime venga incontro alle loro richieste per una società libera e democratica e pongano fine all’oppressione a cui le donne sono soggette.
“La rivoluzione non si può né importare né esportare. È necessario che a mettersi in moto siano gli iraniani. Ed è quello che stanno facendo. La sola cosa che chiedo all’Italia e al resto d’Europa è combattere l’indifferenza, veleno della nostra epoca”. Sono queste le parole di Shirin Ebadi, giudice iraniana costretta a lasciare il suo incarico dopo la rivoluzione del 1979 e vivere in esilio a Londra. Insignita nel 2003 del Nobel per la pace “Per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia” prima iraniana e prima musulmana a ricevere il Nobel per la pace. Oggi vent’anni dopo è il momento dell’attivista iraniana Narges Mohammadi. Il comitato svedese ha così motivato la scelta: “Per i suoi sforzi per combattere l’oppressione delle donne iraniane e i suoi sforzi per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti. La sua lotta coraggiosa ha comportato dei tremendi costi personali. Il regime l’ha arrestata 13 volte, imprigionata cinque e condannata a scontare una pena che assomma ad un totale di 31 anni e 154 colpi di frusta. Mentre le conferiamo il Nobel Mohammadi si trova ancora in prigione”.
Il comunicato stampa continua: “Negli anni Novanta come giovane studente di fisica Narges Mohammadi si distingueva come sostenitrice dei diritti di uguaglianza per le donne e dopo aver concluso i suoi studi ha lavorato come ingegnere e come giornalista. Nel 2003 si è unita al Centro per i diritti umani di Teheran, un’organizzazione fondata dalla Nobel Price Shirin Ebadi. Nel 2011 è stata arrestata per la prima volta e condannata a molti anni di prigione per i suoi sforzi nell’assistere gli attivisti incarcerati e le loro famiglie. Due anni dopo, rilasciata su cauzione, si è impegnata in una campagna contro l’uso della pena di morte che in Iran è una pena diffusa. Dal gennaio del 2022 sono state eseguite più di 860 esecuzioni capitali. Il suo attivismo contro la pena di morte l’ha portata ad un nuovo arresto nel 2015 e a nuove condanne. In prigione continue la sua lotta per i diritti, si oppone all’uso sistematico della tortura e della violenza sessualizzata nei confronti delle prigioniere politiche. Nonostante le condizioni di isolamento in cui vive, in occasione dell’anniversario della morte di Mahsa Amini è riuscita a far pervenire al New York Times un articolo il cui messaggio è: più ci imprigionano e più noi diventiamo forti”.
Questo Nobel per la pace, come sottolinea il comunicato svedese, è un tributo non solo al coraggio indomito di Narges Mohammadi ma anche a quello delle tante giovani donne che scendono in piazza a sfidare il regime, rischiando la loro vita, e a tutti gli uomini che le sostengono, rischiando la loro vita, al grido di Donna Vita Libertà, lottando per una vita più libera, con diritti per tutte e tutti, per la fine dell’oppressione.