La situazione che da 30 anni interessa i Testimoni di Geova in Eritrea meriterebbe sicuramente un’eco mediatica maggiore. Il governo eritreo ha infatti intrapreso, purtroppo ormai da decenni, la triste pratica di imprigionare molti fedeli, tra i quali anche donne e persone anziane, e di sottoporle ad un regime detentivo che non prevede il benché minimo rispetto dei diritti umani inalienabili. Il tutto a motivo del loro credo religioso.

Nell’ormai lontano 1994, il neo-eletto Presidente Isaias Afewerki (tutt’oggi ancora in carica) rese obbligatorio il servizio militare e iniziò questa dura repressione negando ai testimoni di Geova di avvalersi dell’obiezione di coscienza, come alternativa alla leva militare, nonostante per diversi decenni i Testimoni avessero svolto questo servizio con impegno e avessero nel corso del tempo ottenuto diversi attestati di ringraziamento per il loro lavoro. Con il decreto presidenziale del 25 ottobre 1994 i Testimoni furono privati della cittadinanza a motivo della loro astensione al voto e per la loro obiezione di coscienza al servizio militare. Da allora le forze di sicurezza hanno iniziato a imprigionare, maltrattare e persino torturare, non soltanto i giovani testimoni di Geova in età di leva, ma anche donne e anziani, innescando una vera persecuzione religiosa con l’obiettivo ben più ampio di costringerli a rinunciare alla loro fede.

Dal 1994 ad oggi in Eritrea sono stati imprigionati almeno 243 testimoni di Geova. Mediamente queste persone trascorrono dai cinque ai ventisei anni in prigione a motivo della propria fede. Purtroppo durante questi periodi sono costretti a subire delle pene detentive disumane che in alcuni casi hanno portato anche alla morte: è stato tristemente reso noto che almeno quattro di loro sono deceduti mentre si trovavano in prigione, mentre tre sono deceduti dopo il loro rilascio a causa delle dure condizioni che avevano dovuto sopportare durante la detenzione.

Tutto questo continua ad accadere nonostante i ripetuti appelli degli organismi internazionali per il rispetto dei diritti umani che sollecitano un cambio di passo al riguardo. Nel 2016 la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani in Eritrea ha presentato un rapporto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel quale ha dichiarato che con la “persecuzione sul piano religioso ed etnico” di Testimoni di Geova e altri, le autorità eritree hanno commesso un “crimine contro l’umanità”. Nel 2017 il Comitato africano di esperti sui diritti e il benessere del bambino ha espresso sentite preoccupazioni per i maltrattamenti subiti dai figli dei Testimoni, chiedendo che l’Eritrea “riconosca e garantisca appieno la libertà di pensiero, di coscienza e di religione di ogni bambino senza alcuna discriminazione”.

Nel maggio 2019 il Comitato per i Diritti Umani dell’ONU ha sollecitato l’Eritrea perché rilasciasse le persone arrestate per aver esercitato il loro diritto alla libertà di culto ed ha anche richiesto che l’Eritrea “conceda il riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza al servizio militare e istituisca per gli obiettori di coscienza un servizio alternativo di natura civile”. In seguito si sono susseguiti altri appelli, rimasti ad oggi purtroppo inascoltati. La realtà odierna racconta infatti ancora che i Testimoni in Eritrea sono costretti a subire pene detentive di durata indefinita, che in alcuni casi possono durare anche a vita. Purtroppo, nel paese non esistono vie legali percorribili né rimedi impugnatori a loro favore e questo fa sì che la loro condanna equivalga a una pena detentiva perpetua.

Tre casi emblematici

Tre storie che possono riassumere quanto vivono i Testimoni di Geova in Eritrea sono quelle di Negede Teklemariam, Paulos Eyasu e Isaac Mogos. Furono arrestati il 17 settembre 1994, quando avevano solo 21, 22 e 19 anni, a motivo della loro obiezione di coscienza al servizio militare e detenuti senza alcuna formale accusa, né processo, né condanna, per ben 26 anni.

In una recente intervista Negede ha raccontato che in questi anni è stato recluso nel campo militare di Sawa, dove i prigionieri vengono tenuti legati con delle corde, in uno stato di grave denutrizione, sottoposti a dure percosse e obbligati a lavorare al limite delle loro forze. “Eravamo sicuri che non ci avrebbero mai liberato e che non ci avrebbero mai portato in tribunale per un processo, stavano solo aspettando che impazzissimo o magari che morissimo per qualche malattia”, ha raccontato l’uomo.

Negede ha poi proseguito:

Un giorno i soldati mi portarono nel deserto e mi dissero di scavare una buca. Mi dissero, le abbiamo provate tutte con voi [Testimoni di Geova] ma non avete voluto cambiare. […] Finii lì dentro e quella buca era così profonda che restava solo la testa, era pieno giorno e il sole cocente mi stava bruciando. Ero lì sotterrato nella sabbia che il sole aveva riscaldato tutto il giorno, sudavo molto e stavo iniziando a perdere i sensi. Poi, per caso, poco lontano da lì passò una macchina con dei militari. Riuscirono a vedere la mia testa che spuntava fuori dalla sabbia e uno di loro, che non era del campo di Sawa, aveva un’alta carica militare e non sapeva chi fossi io, e ovviamente io non sapevo chi fosse lui. Chiese a quei soldati: “Ma che cosa state facendo? A chi è venuto in mente di fare una cosa del genere a un altro essere umano?”.

I tre ragazzi furono al centro anche di un episodio particolarmente significativo. Alcuni componenti del personale della prigione scattarono una foto a questi tre ragazzi con l’intento di raccontare al mondo la loro storia e dire alle loro famiglie come stavano i loro cari. Nella foto (visibile in copertina di questo articolo e pubblicata sul sito jw.org) i tre ragazzi appaiono sorridenti e Negede, a distanza di tanti anni, ha spiegato così quel sorriso:

Non volevamo che i nostri familiari e i nostri genitori vedessero la tristezza sui nostri volti”.

Ha poi spiegato che in tutti questi anni lui e gli altri Testimoni in prigione hanno tratto la forza per sopportare queste angherie dalla loro forte fede e dal potere unico della preghiera.

A dicembre 2020, dopo aver trascorso più di un quarto di secolo dietro le sbarre, Negede, Isaac e Paulos sono stati rilasciati, assieme ad altri 23 testimoni di Geova che hanno trascorso tra i 5 e i 19 anni in prigione. Attualmente 32 testimoni di Geova (22 uomini e 10 donne, tra i 24 e gli 81 anni di età) sono ancora in prigione in Eritrea a motivo della loro fede. Oggi è più che mai auspicabile che situazioni simili cessino e che i diritti inalienabili di qualsiasi persona vengano rispettati, a prescindere dalla propria fede religiosa.