E sei parlamentari australiani partono alla volta di Washington per farlo.
L’iniziativa si è diffusa a macchia d’olio. Lo scorso 12 agosto, un attivista per Julian Assange di Wellington (NZ) ha twittato un appello a organizzare sit-in fuori dalle ambasciate australiane in tutto il mondo il 3 settembre (o intorno a tale data), per sollecitare il governo australiano a essere più risoluto nel chiedere il rilascio di Assange dalla prigione di Belmarsh a Londra. Un attivista di Londra ha fatto eco all’appello in un popolare talk show sul web e gli attivisti di Roma hanno diffuso l’appello attraverso un’agenzia di stampa internazionale. E poi è accaduto il miracolo.
In sedici città di tutto il pianeta – Sydney, Melbourne, Wellington, Londra, Bruxelles, L’Aia, Parigi, Roma, Milano, Madrid, Stoccolma, Dublino, Toronto, Chicago, Tulsa, Città del Messico – la gente si è riunita spontaneamente davanti all’ambasciata o al consolato australiano locale, o a qualche altro edificio legato al continente australe, per ringraziare il popolo australiano per il massiccio sostegno dato al loro compatriota Julian e per esortare il governo di Canberra ad ascoltare le loro voci e a riportare Julian a casa.
Dal momento che il 3 settembre è la festa del papà in Australia, i sit-in hanno pure voluto ricordare che Julian, come padre, non ha mai visto i suoi figli più piccoli, di 4 e 6 anni, se non da neonati o dietro le sbarre della prigione. Gli attivisti hanno anche voluto rendere omaggio al padre di Julian, John Shipton, che, pur settantenne, gira instancabilmente in tutto il mondo per perorare la causa del figlio che attende l’estradizione negli Stati Uniti e una possibile condanna a 175 anni per aver rivelato crimini di guerra utilizzando documenti riservati.
A Parigi, 60 attivisti francesi, in rappresentanza di 22 gruppi Free Assange di tutta la Francia, hanno sfidato il caldo torrido per venire nella capitale e manifestare davanti all’ambasciata australiana (vedi foto). Nel loro appello, gli attivisti francesi hanno ricordato al premier australiano Anthony Albanese che, lo scorso dicembre, egli aveva commentato la persecuzione giudiziaria di Julian con un secco “Quando è troppo è troppo”. “Ora, nove mesi dopo”, hanno proseguito gli attivisti, “è fin troppo”; l’Australia dovrebbe usare l’influenza acquisita nei confronti degli Stati Uniti “per chiedere l’immediato rilascio di Assange. Se un giornalista australiano che pubblica in Europa può essere arrestato sommariamente e poi giudicato da un tribunale americano, allora nessun giornalista al mondo può essere al sicuro”.
Durante il loro sit-in, gli attivisti di Boston hanno ricordato ai partecipanti che l’Alta Corte del Regno Unito è in pausa estiva fino al 2 ottobre. Ma poco dopo, i giudici annunceranno se concederanno o meno ad Assange un’ultima possibilità di fare appello contro la sua estradizione. Quel giorno viene chiamato “giorno X” perché se la richiesta di appello viene respinta, Julian potrebbe essere immediatamente messo su un aereo per gli Stati Uniti e quindi per un destino da ergastolano. Infatti, le pratiche per l’estradizione sono già state preparate e firmate: l’allora ministro dell’Interno Pritti Patel ha messo la firma un anno fa, il 7 giugno 2022.
A Roma, Davide Dormino, lo scultore della famosa statua in bronzo “Anything to Say?” che riproduce Assange insieme a Chelsea Manning ed Edward Snowden, ha parlato a quasi un centinaio di attivisti davanti all’ambasciata australiana. “Come Prometeo, Julian Assange ha scardinato il potere degli dei, fatto di menzogne, trasformando quelle bugie in verità accessibili a tutti noi – e ora sta pagando per questo”, ha detto Dormino. “Ma non sarà la legge a salvare Julian”, ha aggiunto. “perché Julian Assange è un prigioniero politico. Se verrà salvato, sarà salvato solo perché tutti noi siamo qui, così come in tante altre città del mondo, a manifestare, sarà la nostra pressione sui governi a farlo tornare libero”.
A Milano, gli attivisti del Comitato per la Liberazione di Julian Assange – Italia hanno detto a una folla di 120 sostenitori, riuniti fuori dal Consolato australiano, che “il caso Assange è un caso di persecuzione politica che non ha nulla a che vedere con le questioni giudiziarie, che vengono utilizzate in modo arbitrario, creando così un pericoloso precedente per lo Stato di diritto”.
Nella capitale britannica, una dozzina di manifestanti del Team Assange London si sono riuniti sulla Strand davanti all’Australia House per cantare “Albo [Albanese] mantieni la promessa elettorale! Liberate Assange!”
Come spronata dai molteplici sit-in in tutto il mondo, una delegazione di parlamentari australiani provenienti da tutto lo spettro politico si recherà a Washington DC questo mese per esortare i politici e i funzionari statunitensi a rinunciare ai tentativi di estradare Assange.
La delegazione trasversale comprenderà l’ex vice primo ministro e leader dei Nationals Barnaby Joyce, il deputato laburista Tony Zapia, la deputata indipendente Monique Ryan, il deputato liberale Alex Antic, il deputato dei Verdi Peter Whish-Wilson e il deputato David Shoebridge. Incontreranno membri del Congresso e del Senato, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia, nonché importanti think-tank e ONG tra cui l’American Civil Liberties Union (ACLU), la Foundation for Individual Rights and Expression (FIRE), il Committee to Protect Journalists e Reporters Without Borders.
Gabriel Shipton, fratello di Julian che accompagnerà i parlamentari, ha dichiarato: “Gli australiani considerano gli Stati Uniti come il nostro più stretto alleato e molti sono orgogliosi delle strette relazioni che i nostri due Paesi intrattengono. Ma in questo momento Julian viene tenuto in ostaggio da un’amministrazione statunitense vendicativa e questo sta danneggiando le relazioni tra Stati Uniti e Australia”.
Inoltre, hanno osservato i parlamentari, la persecuzione di Julian Assange offre a Stati rivali come Cina e Russia, criticati in Occidente per la persecuzione dei giornalisti, l’opportunità di sostenere che gli Stati Uniti fanno esattamente la stessa cosa. Un smacco alla propria reputazione che il governo americano dovrebbe voler evitare, rinunciando alla richiesta di estradizione.