La persecuzione del popolo curdo è tra le più annose, sanguinose e dimenticate al mondo. Si esercita quotidianamente nei diversi Paesi e territori in cui, in base al Trattato di Losanna del 1923, è stato suddiviso il Kurdistan (Siria, Iraq, Iran, Turchia), sottraendo così al suo popolo il diritto di vivere in uno Stato libero e indipendente.
La politica di strisciante genocidio portata avanti da Recep Tayyip Erdoğan è ancor più evidente e determinata, oltre che impunita, grazie all’indifferenza, ma anche alla complicità, dei governi occidentali. Il “sultano” turco è cinicamente abile nell’utilizzare ogni pretesto per dispiegare la più feroce repressione interna contro qualsiasi dissidenza e ogni spazio di libertà democratica. Lo ha fatto in modo massiccio e ancor più sistematico dopo il “tentato golpe” del 2016: da allora almeno 134.000 dipendenti pubblici sono stati licenziati, tra cui oltre quattromila magistrati e giudici; centinaia di persone condannate a pesanti pene, compreso l’ergastolo; interi partiti rappresentati in Parlamento messi fuorilegge. Come, appunto, l’HDP, il Partito democratico dei popoli, che unisce forze filo-curde e forze di sinistra della Turchia. Il suo co-presidente, Selahattin Demirtas, condannato a 142 anni di carcere, dal 2016 continua a rimanere imprigionato nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia ripetutamente giudicato illegittima la condanna e chiesto la sua scarcerazione. In sei anni oltre 10.000 membri di HDP sono stati arrestati, comprese decine di deputati e di amministratori locali. Il pretesto, in questi casi, è la comoda coperta del “terrorismo”. Accusa che consente, tra l’altro, al regime turco di tenere segregato da oltre 24 anni il leader del popolo curdo e fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan, dopo averlo illegalmente sequestrato. Prigioniero nella prigione-isola di Imrali nell’isolamento più totale, nel 2007 ha subito un tentativo di avvelenamento; più recentemente, nell’estate 2023, ha ricevuto nuove minacce di morte, mentre sono circa due anni e mezzo che i suoi avvocati e famigliari non hanno più potuto visitarlo né averne notizie.
Quello di Erdogan è un regime finanziato da anni con diversi miliardi dalla Commissione Europea affinché impedisca ai profughi in fuga dalla guerra in Siria di arrivare nei Paesi dell’Unione. È il regime con il quale, negli ultimi mesi, la NATO e i governi occidentali hanno trattato per ottenerne il placet all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia in funzione anti-russa. Consenso che, alla fine, Erdogan ha elargito: al solito, in cambio di complicità attiva nella persecuzione dei curdi, con l’estradizione e la consegna da parte del governo svedese degli attivisti rifugiati da anni in quel Paese.
Ma la strategia ricattatoria di Erdogan, mirata anche all’ingresso nell’Unione Europea, nonostante la Turchia non risponda agli standard richiesti in materia di diritti umani e di Stato di diritto, ha obiettivi geopolitici ancor più ambiziosi. Come dimostra il ruolo di protagonista internazionale che si è ritagliata a margine del conflitto russo-ucraino e, prima, il suo espansionismo bellico, con gli interventi in Siria, in Libia, nel Nagorno-Karabakh, e quello politico in diversi Paesi africani.
Da un quarto di secolo è in atto una progressiva espansione e una mutazione strategica della NATO, nel silenzio e indifferenza internazionale, sino al ruolo offensivo avuto con i bombardamenti sulla Serbia nel 1999 – con l’uccisione di centinaia di civili, la distruzione di scuole e ospedali, l’utilizzo di armi all’uranio impoverito – in violazione dello stesso proprio statuto e nel disprezzo del diritto internazionale, non avendo avuto l’approvazione all’intervento militare da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel vertice dell’Alleanza di Vilnius (11-12 luglio 2023) si è ufficializzato l’ingresso della Svezia e deciso l’aumento delle spese militari. Dopo il decennale allargamento a Est, che ha costituito una delle premesse e delle cause scatenanti della guerra in Ucraina, con l’invito al summit di Vilnius di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda si è ora delineato e accelerato il nuovo e ancor più pericoloso scenario del prossimo futuro: la trasformazione della NATO in un’alleanza globale in funzione anti-cinese. Una prospettiva che, come già le scelte riguardo l’Ucraina, evidenzia la centralità degli interessi statunitensi e il rischio di una “vassallizzazione” dell’Europa, per usare una definizione al riguardo del presidente francese, l’unico leader dell’Unione a mostrarsi recalcitrante.
Intanto, nel nuovo quadro sancito dall’accettazione delle richieste di Erdogan, secondo Duran Kalkan, membro del Consiglio esecutivo del PKK, l’Alleanza atlantica è fortemente a rischio di divenire a tutti gli effetti anche complice della politica di negazione dei diritti e di sterminio del popolo curdo: «il Trattato di Losanna, che ha fornito la base giuridica e il potere politico del primo genocidio curdo, trasferirà la sua funzione alla NATO. Essa svolgerà quindi il medesimo compito: diventerà il sistema di negazione e sterminio dei curdi». In questo modo, un secolo dopo Losanna, «la Turchia completerà il massacro dei curdi usando la NATO». Se questa preoccupazione si rivelasse esatta, sarebbe un’ulteriore ed ennesima riprova che, come tutte le guerre, anche quella in Ucraina produce crimini e violazioni non solo nei confronti delle popolazioni direttamente coinvolte nel conflitto, ma riverbera ad ampio raggio e con estensione globale.
Si può, in definitiva, osservare come ogni scelta internazionale che alimenti il conflitto, come ad esempio le massicce forniture di armi, non produca giustizia per gli aggrediti ma piuttosto favorisca nuove e maggiori violazioni contro i diritti dei popoli in generale. Quello curdo è da un secolo tra i più soli, abbandonati, violentati. La Federazione Internazionale dei Giornalisti ha definito la Turchia «il più grande carceriere di giornalisti nel mondo». Anche perciò bisognerebbe che i media si occupassero con maggior attenzione, continuità ed efficacia del genocidio in corso, che vede ora un salto di qualità e un’ulteriore drammatizzazione.