Un impegno di 27 anni in una delle regioni più povere dell’Africa e un supporto di raccolta fondi dall’Italia. Ne parliamo con Laura Pierino e Mauro Vaccani.
Laura, com’è la situazione attuale in Mozambico?
Dal 2017 il nord del Mozambico, la regione più povera e la meno sviluppata di tutto il Paese, perché priva di istruzione, servizi sanitari, opportunità economiche, strade, etc., è colpito da una guerriglia violenta di carattere jihadista, mossa dall’intenzione di ostacolare gli investimenti delle multinazionali che hanno il monopolio sulle enormi risorse del sottosuolo, soprattutto il gas e il petrolio.
Questo ha portato maggior povertà e problematiche sociali difficili da gestire. La grande quantità di sfollati in seguito ai continui attacchi terroristici (più del 50% della popolazione di Cabo Delgado) ha reso difficile l’integrazione di queste persone nelle località relativamente più sicure e già di per sé povere. Alle difficoltà di sopravvivenza si aggiungono quelle di conciliazione fra tribù che hanno lingue e abitudini diverse. Anche la diffidenza e la paura di perdere parte dei piccoli campi da coltivare, insufficienti per alimentarsi, rende più lenta l’inclusione nelle zone di accoglienza.
Che cosa ti ha spinto alla scelta di operare in Africa e che cosa ti dà la forza per portarla avanti?
Sono in Mozambico da 27 anni. Il mio impegno a restare accanto ai più deboli, esclusi e sfavoriti – che sono i più “poveri” in tutte le forme di povertà esistenti in uno dei Paesi più poveri dell’Africa- è nato dall’incontro con alcune realtà dell’Africa estremamente difficili. Si è poi alimentato lungo il cammino, entrando sempre di più nella realtà dei più dimenticati e svantaggiati, toccando la ricchezza delle loro esistenze e mettendo a disposizione la mia persona e la mia vita per scoprire insieme le potenzialità e le opportunità che possono trasformare la disperazione in speranza.
Mi dà forza una grande fede nel Bene che esiste in noi e intorno a noi e che ha una forza immensa, soprattutto nelle piccole cose, accessibili a tutti, spesso quasi invisibili, ma capaci di determinare i grandi cambiamenti che possono far rinascere una vita distrutta e creare donne e uomini nuovi, ispiratori di un mondo migliore e costruttori concreti della speranza che abita in tutti.
Quali sono le vostre attività?
Nella Provincia di Cabo Delgado, ci impegniamo da 27 anni ad accompagnare le persone più vulnerabili, soprattutto bambini, giovani e persone malate di lebbra, restituendo loro la dignità, la speranza e la forza per diventare i protagonisti attivi della loro rinascita. Come spiegato nel nostro sito, tutto è nato da un piccolo seme gettato nel 1996, germogliato nel 1999 e diventato arboscello nel 2008, con la costituzione della Fondazione Sementes de Esperança.
Nel contesto di violenza, terrorismo, tensione e perdita di prospettive per il futuro in cui stanno vivendo e crescendo i bambini e i giovani di Pemba e, in generale le persone più vulnerabili, diventa sempre più importante impegnarci per costruire basi solide, soprattutto fra i bambini, gli adolescenti e i giovani, affinché crescano capaci di costruire e testimoniare valori di pace, dialogo e speranza e non vengano fagocitati dalle milizie, che li ingannano promettendo denaro e vendendo falsi ideali patriottici.
I nostri Centri socio-educativi per bambini orfani o in situazione di disagio, per adolescenti e giovani e per persone discriminate a causa della lebbra sono riferimenti di crescita umana, sociale e soprattutto interiore, poiché aiutano a recuperare la fiducia in se stessi, a credere in una speranza viva e a far crescere i valori umani necessari per costruire una comunità sana e armoniosa. L’educazione, la formazione professionale, l’accompagnamento familiare, il sostegno psico-sociale, la sensibilizzazione comunitaria sono solo alcune delle attività che caratterizzano i nostri progetti socio-educativi, in cui prevale la cura di un ambiente fraterno sia con i beneficiari che con i vari collaboratori mozambicani impegnati in questa missione.
Puoi raccontare qualche episodio che ti ha colpito particolarmente?
La storia di Xirico e dell’Alemo, l’associazione di lebbrosi che abbiamo fondato insieme, è per me molto significativa ed emozionante.
Incontrai Xirico nel 1999. Era uno dei tanti mendicanti di Pemba, un uomo sfigurato dalla lebbra che si trascinava su una sedia a rotelle tutta rotta, vestito di stracci, senza mani, senza piedi e con il corpo ricoperto di ulcere e ferite aperte che emanavano un odore insopportabile, ripudiato ed evitato da tutti perché il suo corpo suscitava ribrezzo. Era un lebbroso, trattato come un lebbroso; lui però si sentiva diverso. “Io sono Xirico”, affermava sempre con l’orgoglio di un passato in cui era stato rispettato, considerato e persino temuto: capo classe ai tempi della scuola, caporale nell’esercito ai tempi della guerra, uomo alto e forte, ridotto oggi ai limiti di un corpo mutilato, ma con una mente attiva e dinamica che non si arrendeva, e con la stessa grinta e la stessa caparbietà dei suoi anni di gioventù. Ora combatteva per una causa alta a cui nessuno poteva rimanere indifferente: la dignità!
“Io sono lebbroso – diceva Xirico – ma sono un uomo. I vivi non sono lebbrosi, non possono capire, ma anche noi siamo persone”. Parole forti come la sua volontà, che davano voce al suo sogno di riscattare tutti i lebbrosi dall’emarginazione e dall’abbandono, da una vita di “morti viventi”.
Stanco di essere discriminato, preso a pietrate e disprezzato, Xirico voleva creare un’associazione di lebbrosi che rivendicasse la loro dignità di esseri umani. Cercava dei fogli di carta e qualcuno che l’aiutasse a scrivere il documento e bussò alla mia porta. Sentii immediatamente che il suo grido era anche il mio.
Xirico mi fece conoscere altre persone umiliate da questa malattia, che sopravvivevano a stento chiedendo l’elemosina. Ci riunimmo. Ascoltai le loro vite, le loro aspirazioni. Raggiungevano il numero minimo richiesto per costituire un’associazione e così l’avventura cominciò.
Xirico ed io eravamo diventati ormai inseparabili compagni. Qualche misteriosa forza ci attraeva e ci univa in un ideale incompreso da molti e ritenuto impossibile, che a me stava dando un’energia nuova e una gioia immensa. Così iniziò a rafforzarsi la mia lotta per la dignità di Xirico, un uomo squilibrato mentalmente perché la lebbra gli aveva già causato danni neurologici oltre che fisici, un uomo che amavo sempre più come fratello, per cui avrei potuto dare la vita perché rappresentava per me tutta un’umanità allo stremo della sofferenza: gli ultimi!
Proprio l’uomo più rigettato ed escluso per il suo aspetto sfigurato, abbandonato dalla sua famiglia, allontanato da tutti per paura e ribrezzo era diventato il promotore di una speranza per molti altri lebbrosi in situazioni simili alla sua!
Credevo profondamente a questa causa. Vedevo il futuro dei più sofferenti ed emarginati trasformarsi da disperazione in speranza, vedevo il loro sguardo che implorava che i “vivi” smettessero di trattarli da “morti”.
Iniziammo a uscire da Pemba e a cercare nei villaggi altre persone avvilite dalla stessa malattia. In pochi anni il numero dei membri dell’associazione arrivò a più di 2.000. Andavamo anche in cerca di un luogo che potesse essere la sede dell’associazione, ma non era facile, perché nei quartieri la lebbra faceva paura a tutti. Trovammo quasi per caso il luogo ideale. Nasceva così il Centro Lambaréné!
L’inaugurazione fu molto emozionante poiché segnava un traguardo a lungo sofferto: il riscatto della dignità dei lebbrosi nella società di Pemba. Si respirava un’atmosfera speciale. I lebbrosi avevano fatto grandi sacrifici per accelerare il termine dei lavori di costruzione. Insieme, dalle primissime ore dell’alba fino alla sera illuminata dal chiaro di luna, avevamo spalato, zappato, trasportato pietre, rastrellato un terreno pieno di detriti, dipinto, disegnato, adornato con fiori, intrecciato foglie di palma, provato canti, scritto discorsi, trasportato acqua… L’unione e l’armonia fra di loro era contagiosa e, in un clima di solidarietà bellissimo, tutti collaboravano, anche vari volontari di diverse nazionalità… Ognuno contribuiva con la propria arte ed il proprio cuore all’ufficializzazione di un sogno audace che si stava realizzando.
Fra gli invitati non mancarono alcuni ciechi e invalidi, tra i più miserabili rappresentanti dei molti schiavi dell’elemosina che popolavano Pemba. Era un giorno di festa anche per loro, al quale facevano onore con danze e canti, quasi dimenticando la tragedia delle loro vite.
Sulla parete esterna del Centro Lambaréné era stato realizzato un grande dipinto che simboleggiava le mani del lebbroso trasformate in un tronco di albero che, elevate verso l’alto come a chiedere solidarietà, davano vita a rami verdeggianti, lasciando cadere per terra le foglie secche, simbolo della vita passata. L’albero era raccolto nel cerchio del sole e una grande scritta lungo la circonferenza diceva: “Alemo dà la vita“.
Una tettoia di bambù, utilizzata come luogo di incontro fino a quel giorno, fu adibita a sala di esposizione di tutti i lavori fatti dai lebbrosi dell’Alemo: stuoie, corde, cesti e borse di paglia, vasi d’argilla, lettini e divanetti di paglia o vimini, prodotti agricoli, collane, anelli e bracciali di perline, abiti cuciti a macchina, disegni, quaderni del corso di alfabetizzazione….
Sette uomini, donne e bambini lebbrosi provenienti da sette villaggi diversi, piantarono in quel giorno contemporaneamente sette palme da cocco per segnare l’inizio di una vita nuova elevata a ideali alti e fecondi.
Durante la visita al Centro Lambaréné, all’esposizione e mentre si piantavano le palme, i lebbrosi cantavano e danzavano un lungo ed emozionante canto che raccontava tutto ciò che avevano costruito e raggiunto con il loro impegno. Poi, tutti seduti all’ombra di un grande albero, rappresentarono il loro inno, i loro canti, le loro poesie e i loro messaggi, trasmettendo in poche decine di minuti tutta una realtà di antiche sofferenze, di abbandono e lazzaretti, di nuovi orizzonti di cura e vita sociale normale, di sensibilizzazione alla cura della lebbra, di voglia di essere uomini, donne e bambini “vivi”!
I lebbrosi continuarono a danzare, cantare e a raccontare se stessi, carichi di speranza e con un’energia inesauribile. I più poveri, i colleghi dell’elemosina, erano con loro a dar forza al sogno di una vita nuova. La luce nei loro sguardi e nei loro sorrisi era abbagliante! Il centro era loro, nel loro cuore, nel loro lavoro, nei loro sogni. Il nostro centro, dicevano, perché anche noi possiamo dimostrare di essere persone che lavorano, che studiano, che vivono!
Mauro, come si svolge la raccolta fondi dell’organizzazione di volontariato La gioia del dono, che hai fondato con alcuni amici per supportare le attività della Fondazione Sementes de Esperança?
Abbiamo costituito una “comunità di donatori” aperta a tutti. Due volte l’anno, a San Martino (11 novembre) e a metà maggio, una circolare elenca quanto pervenuto in ordine cronologico, senza l’indicazione del donatore. Tutti possono così riconoscere la propria donazione, pur restando fedeli al principio secondo il quale, nel donare, “non sappia la tua destra quel che fa la tua sinistra”, che è poi il rispetto dell’anonimato. La data di San Martino ci ricorda il suo commovente gesto: divise a metà il suo mantello per darlo a un povero.
Che cosa vi ha spinto a fare questa scelta?
Abbiamo conosciuto Laura più di dieci anni fa e siamo rimasti colpiti dal suo coraggio, dalla sua intraprendenza e soprattutto dalla sua paziente positività, capace di scorgere sempre il piccolo seme che fiorisce e che merita comunque di essere coltivato. Una visita a Pemba, prima del blocco causato dal Covid, ha rafforzato ancora di più questa convinzione. Il proposito di aiutarla da qui col sostegno economico si è così ulteriormente consolidato. Il contatto diretto con lei e l’incontro personale in occasione dei suoi rientri in Italia hanno ulteriormente accresciuto la stima, l’ammirazione e il desiderio di darle una mano.
Per contatti e informazioni:
Sito: https://semillas.africasemillas.org/
Pagina Facebook: https://www.facebook.com/SemillasdeesperanzaFSDE