“Le prigioni iraniane sono diventate campi della morte”. Amnesty International: “Quest’anno, triplicate le esecuzioni per reati di droga”
Dall’inizio del 2023 le autorità iraniane hanno messo a morte, sempre a seguito di processi iniqui, almeno 173 prigionieri per reati di droga, quasi il triplo rispetto al numero del 2022.
Lo ha denunciato oggi Amnesty International, evidenziando che le esecuzioni per reati di droga nei primi cinque mesi del 2023 hanno rappresentato due terzi del totale delle impiccagioni e hanno riguardato per lo più persone provenienti da ambienti marginalizzati ed economicamente svantaggiati.
I prigionieri dell’etnia baluci, perseguitata e impoverita, costituiscono circa il 20 per cento dei condannati a morte, mentre rappresentano solo il cinque per cento della popolazione dell’Iran.
“La vergognosa velocità con cui le autorità iraniane eseguono condanne a morte per reati di droga, in violazione del diritto internazionale, mostra la loro mancanza di umanità e il loro profondo disprezzo per il diritto alla vita. La comunità internazionale deve assicurare che la cooperazione nelle iniziative contro il traffico di droga non contribuisca, direttamente o indirettamente, all’arbitraria privazione della vita e ad altre violazioni dei diritti umani in Iran”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.
“Gli stati e gli organismi intergovernativi devono condannare le autorità iraniane, nel modo più assoluto, per queste esecuzioni arbitrarie, chiedere una moratoria ufficiale su tutte le esecuzioni, inviare propri rappresentanti a visitare i condannati a morte e richiedere di assistere ai processi per reati capitali. Data la crisi d’impunità per queste esecuzioni arbitrarie e di massa, devono anche cercare modi efficaci per l’accertamento giudiziario delle responsabilità”, ha proseguito Eltahawy.
Nel 2023 sono aumentare significativamente anche le esecuzioni nel loro complesso: finora, almeno 282, quasi il doppio del numero delle esecuzioni registrate all’inizio di giugno del 2022. Se questo allarmante andamento dovesse proseguire, alla fine dell’anno le esecuzioni potrebbero essere quasi un migliaio.
Una guerra mortale contro i poveri
La pena di morte colpisce prevalentemente le persone povere e vulnerabili, spesso non consce dei propri diritti e non in grado di coprire i costi di una difesa indipendente. Le famiglie dei prigionieri messi a morte patiscono le gravi conseguenze economiche derivanti dalla perdita dei percettori di debito e s’indebitano pesantemente per pagare le spese legali.
Un parente di una prigioniera nel braccio della morte, unica percettrice di reddito della famiglia prima dell’arresto, ha raccontato ad Amnesty International:
“Non ha mai incontrato l’avvocato nominato dal tribunale. Lui ha ingannato la famiglia, promettendo che la condanna a more sarebbe stata annullata in cambio di una parcella esorbitante. Hanno venduto tutto quello che possedevano, persino il gregge. Lui ha preso i soldi ed è scomparso, lasciando la famiglia in un mare di debiti”.
Queste sono le parole del figlio adolescente di un prigioniero messo a morte per reati di droga:
“Dovrei preoccuparmi per gli esami, come gli altri, invece di andare a lavorare. Il mio salario non basta alla mia famiglia a causa di tutti i debiti che abbiamo. Non ho neanche il denaro sufficiente per iscrivermi a scuola il prossimo anno. Se mio padre non fosse stato messo a morte, ora potrei pensare al mio futuro e non a come rimediare denaro per la mia famiglia.
Le esecuzioni per reati di droga sono precedute da indagini approssimative da parte del reparto anti-narcotici della polizia e di altri organismi di sicurezza. I processi si svolgono di fronte ai tribunali rivoluzionari e risultano sistematicamente irregolari: ai detenuti viene negato il diritto a un processo equo, non c’è accesso alla rappresentanza legale e le “confessioni” estorte con la tortura sono usate come prove per emettere la condanna a morte.
Un prigioniero nel braccio della morte ha detto ad Amnesty International:
“I giudici del tribunale rivoluzionario chiedono se la droga è tua, che tu risponda sì o no non fa alcuna differenza. Il giudice del mio processo mi ha detto di stare calmo quando ho risposto che la droga non era mia. Ha pronunciato la condanna a morte e mi ha ordinato di firmare un documento di accettazione. Non ha neanche consentito al mio avvocato di prendere la parola”.
Un’ondata ben più ampia di esecuzioni
Le autorità iraniane hanno messo a morte prigionieri per altri atti che, in base al diritto internazionale, non dovrebbero mai comportare la pena capitale.
Nei primi cinque mesi del 2023 cinque uomini sono state impiccati in relazione alle proteste, uno per “adulterio” dopo che aveva avuto una relazione sessuale consensuale con una donna sposata e altri due per attività sui social media che sono costate loro le accuse di “apostasia” e “offesa al profeta dell’Islam”.
Le forze di sicurezza aggravano l’angoscia delle famiglie dei prigionieri stroncando violentemente, con proiettili veri e gas lacrimogeni, le proteste pacifiche di fronte alle prigioni dove sono previste le esecuzioni dei loro cari.
Amnesty International si oppone alla pena di morte in tutti i casi e senza eccezioni, a prescindere dalla natura o dalla circostanza del reato, dalla colpevolezza, dall’innocenza o da altre caratteristiche dell’imputato o dal metodo usato dallo stato per eseguire una condanna a morte. La pena di morte viola il diritto alla vita ed è l’estrema pena crudele, inumana e degradante.
Nel 2022 l’Iran è risultato al secondo posto nel mondo per numero di esecuzioni, dopo la Cina.
Per ulteriori dati e informazioni, si può consultare il Rapporto sulla pena di morte nel 2022