Lo scorso 18 marzo la polizia di Banja Luka, capoluogo della Republika Srpska (RS), l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina presieduta da Milorad Dodik, ha vietato un evento LGBTQI+ promosso dalle organizzazioni “Geto” di Banja Luka e “BH. Povorska ponosa” di Sarajevo; si trattava della proiezione del film “Pride” presso il circolo DKC Incel di Banja Luka, e di un cineforum informale con intrattenimento musicale.
Gli eventi sono stati annullati poiché la polizia locale ha ritenuto di non essere in grado di garantire la sicurezza, a causa di un “alto rischio di escalation della tensione a seguito alle numerose minacce contro organizzatori e partecipanti”. Nelle ore successive alcuni facinorosi hanno vandalizzato il centro culturale DKC Incel e circondato un altro edificio dove una quindicina di attivisti, per lo più donne, si erano riuniti per un incontro informale dopo la cancellazione degli eventi di cui sopra.
Le reazioni
Da quel giorno decine di voci si sono levate in tutta la Bosnia-Erzegovina per denunciare il clima ostile nei confronti dei membri della comunità LGBTQI+. Mirza Halilčević dell’organizzazione “BH. Povorska ponosa” ha dichiarato che in città si sono visti chiari messaggi di intolleranza e resistenza all’evento. In realtà, a Banja Luka si erano già registrate alcune violenze lo scorso 8 marzo, quando due attiviste con la bandiera arcobaleno durante una manifestazione per i diritti delle donne erano state aggredite da un gruppo di giovani.
“Quello che è successo a Banja Luka è un crimine di odio che è stato incoraggiato dall’inerzia della polizia e dai discorsi faziosi dei leader di Banja Luka e della RS”, denuncia Ena Šehić, del comitato organizzativo della marcia arcobaleno in Bosnia-Erzegovina. Il collettivo nazionale, che dal 2019 riunisce a Sarajevo migliaia di persone ogni anno, ha avviato un procedimento penale contro il ministero dell’Interno della RS, la polizia e i vertici della città e dell’entità.
Ma gli eventi del 18 marzo hanno scatenato un’ondata di indignazione anche fuori dai confini bosniaci. Alcune ONG, come “Transparency International BiH”, hanno sospeso le attività pianificate con le autorità della RS. Nei giorni scorsi sui social si sono moltiplicati i messaggi di sostegno delle associazioni per la difesa dei diritti LGBT, dei media e delle ambasciate, mentre a Belgrado gli attivisti si sono riuniti il 20 marzo scorso. “L’estrema destra è diventata così forte che non siamo più al sicuro nemmeno tra quattro mura”, ha dichiarato Ana Petrović, la cui associazione “Da se zna” invita gli attivisti LGBTI+ dei Balcani a “unirsi contro gli attacchi comuni”. Proprio a Belgrado, lo scorso settembre l’Europride era stato inizialmente bandito dal governo serbo, su pressione di movimenti estremisti e associazioni religiose, per poi essere autorizzato a poche ore dall’inizio e con un ingente dispiegamento della polizia.
Indubbiamente nei Balcani occidentali sono stati compiuti importanti passi avanti negli ultimi anni in materia di diritti LGBTQI+: basti pensare al primo storico pride di Sarajevo nel 2019, o al fatto che l’anno scorso la Croazia abbia dato il via libera alle adozioni per coppie omosessuali. Tuttavia, la strada da fare per un reale cambio di prospettiva verso l’inclusione della comunità LGBT nel tessuto sociale resta ancora lunga.
La posizione delle istituzioni in RS
La situazione nell’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina è particolarmente inquietante. A ridosso degli eventi di marzo, il presidente Dodik aveva chiesto alle autorità cittadine di impedire qualsiasi manifestazione dedicata ai diritti LGBTQI+, incontrando il pieno appoggio del giovane sindaco Draško Stanivuković e delle istituzioni religiose ortodosse, le quali, in una lettera aperta pubblicata il 15 marzo, avevano invitato il governo della Republika Srpska a “prendere misure di sicurezza e appositi decreti legislativi per salvaguardare i valori familiari, morali, cristiani e tradizionali” dell’entità serba.
Dodik ha inoltre annunciato, durante un discorso televisivo, l’adozione nei prossimi mesi di una nuova legge che vieterebbe ai membri delle organizzazioni LGBTQI+ di entrare in asili nido, scuole, università per “fare propaganda”. L’annuncio di Dodik solleva inevitabilmente altri timori sullo status di democrazia, tolleranza e inclusività nella Republika: “Oggi stanno attaccando la comunità LGBTQI+, domani potrebbe toccare ai rom, ai migranti, agli oppositori e tutti coloro che non aderiscono al discorso dominante”, avverte Vanja Stokić, direttrice della testata E-Trafika.
Insomma, Dodik ancora una volta, e in maniera sempre più spregiudicata, non teme di mostrare i muscoli, lanciando messaggi chiari a tutti gli oppositori: questa volta a farne le spese è la comunità LGBTQI+, i cui diritti vengono negati e calpestati in un clima di diffusa intolleranza e violenza.