Pubblichiamo la recensione del libro di Beata Umubyeyi Mairesse I tuoi figli ovunque dispersi (Edizioni E/O, 2022)
“Di nuovo un viaggio con un nodo alla gola, senza voglia di parlare né di mangiare, soltanto con l’ossessione di arrivare e confrontarmi con quella terra che amo e temo allo stesso tempo, la madre di tutti i miei guai. Perché non sono nata in Patagonia?”
Beata Umubyeyi Mairesse è una scrittrice ruandese. Fuggita in Francia nel 1994, anno in cui la guerra civile fra hutu e tutsi raggiunge il culmine, decide di tornare tre anni dopo nel suo Paese d’origine, per cercare di riannodare i fili di una storia familiare squassata da un genocidio che ha portato alla morte un milione di persone. Ne “I tuoi figli ovunque dispersi” ha raccolto, passo dopo passo, le tracce di una faticosa opera di rammendo, che, si intuisce, non avrà mai fine.
Il primo viaggio di ritorno a Butare è accompagnato da un senso di estraneità: Blanche – questo il nome della protagonista del racconto- rivede la madre Immaculata e il fratello Bosco, che a 17 anni si era arruolato nell’esercito di liberazione nazionale, tornandone ferito nell’anima e nel corpo. Rimpatriata di cuori a brandelli, la definisce.
“Cos’era cambiato nel paese? Io. Lo sguardo amaro e nostalgico che posavo su ogni cosa. Ciò che era stato lacerato”.
Di fatto, Blanche non aveva assistito alla devastazione del suo Paese e i sopravvissuti stentano a trovare le parole per raccontarle del massacro: la madre si era nascosta per tre mesi in un rifugio, quando ne era uscita il figlio aveva dovuto imboccarla come una neonata.
“Ti sei asciugata la faccia sollevando un lembo del pareo annodato negligentemente su un vestito troppo grande e dai colori sbiaditi, poi mi hai fatto sedere di forza su una poltroncina di legno senza cuscini. Mi chiedevo che fine avessero fatto i nostri mobili. Di sicuro rubati. Il salotto era semivuoto: quattro sedie, un tavolino basso, un cassettone con le ante a vetri e centrini all’uncinetto dappertutto.
Non sapevo come comportarmi. La tua bocca sorrideva, ma i tuoi occhi erano pieni di una tristezza insondabile”.
Poco dopo il suo rientro a Bordeaux, partorisce un bambino e il giorno dopo viene raggiunta dalla notizia del suicidio del fratello. Scoprirà dopo qualche anno che il figlio Stokely è affetto da una malattia ereditaria che impedisce al sangue di coagularsi normalmente. Il corpo non dimentica: “Col mio sangue marcio rilancio il circuito delle disgrazie invisibili che ci legano per la vita e per la morte”.
Torna ancora una volta in Ruanda con il marito: in dieci giorni, con i cugini, gli mostra i luoghi della sua infanzia, il lago Kivu a Kibuye e a Gisenyi, i memoriali del genocidio a Gisozi e a Murambi, il parco nazionale dell’Akagera, la foresta di Nyungwe, il museo etnografico di Butare. Rende omaggio con la madre alla tomba del fratello, le incomprensioni con lei sembrano essersi sciolte, Immaculata parla a stento, congelata da un dolore che non trova sbocco.
La seconda parte del libro assume toni più elegiaci, come se una diga avesse finalmente lasciato defluire emozioni a lungo trattenute. “Blanche ha capito che non deve amalgamare tutto, ma rompere il cerchio delle maledizioni”.
Altre crepe si apriranno nella sua vita, il suo matrimonio finirà e lei stessa sperimenterà nuove ripartenze. La nonna Immaculata riuscirà a incontrare il nipote in Francia e da quel momento intreccerà con lui un rapporto epistolare ricco di memorie e propulsore di nuova vita.
Il passato e il futuro appaiono riannodati: la lingua kinyarwanda, del resto, usa la stessa parola per dire ieri e domani, Ejo. Ejo, dunque.