A sorpresa Goldman Sachs ha mutato le previsioni sullo stato dell’economia nella zona euro per l’anno in corso. Si è passati da una possibile recessione tecnica, valutata intorno al meno 0,1%, ad una crescita attesa del prodotto interno lordo dell’ordine dello 0,6%. La causa principale di questa aspettativa più ottimistica, è data dal netto calo del prezzo del gas naturale. Inutile dire (di passaggio) che, come al solito, le previsioni per il nostro paese (stavolta stranamente in compagnia della Germania) sono meno rosee rispetto ad altri, come per esempio Francia e Spagna.
Buone notizie anche sul fronte dell’inflazione, rispetto al quale si sottolinea che il picco massimo è già stato raggiunto, con le ultime proiezioni che vedono l’aumento dei prezzi al 6,3% nel 2023, per poi calare al 3,4% nel 2024 e al 2,3% nel 2025. Malgrado tutto ciò, pare che la BCE non abbia nessuna intenzione di modificare la sua politica di lotta all’inflazione basata sul mantra neo liberista dell’aumento dei tassi d’interesse. Ne fanno fede le recenti dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, dal vicepresidente De Guidos che prende in considerazione i 50 punti base come una sorta di aumento standard dei tassi, alla Schnabel, membro del consiglio direttivo, che parla di “significativi rialzi” perché “l’inflazione non scenderà da sola”. Lo scorso 15 dicembre, d’altra parte, l’Eurotower aveva già portato gli interessi al 2,50% (rifinanziamento principale), al 2,75% (rifinanziamento marginale) e al 2,00% (depositi presso la banca centrale). Ma non basta: Molti scommettono che ci saranno ancora due aumenti di 50 punti base nei mesi di febbraio e marzo fino a portare il tasso di rifinanziamento principale al 3,50%. La giustificazione di una politica così fortemente recessiva starebbe nella considerazione che se è vero che l’inflazione generale tende a calare, il dato core (i prezzi al consumo con scorporati quelli dell’energia e dell’alimentare) tende invece a salire (5,2% il dato del 2022).
Diversi analisti tuttavia, compreso anche i CEO (amministratori) di alcune grandi banche, fanno notare come i danni per l’economia saranno enormi, senza neppure che ci sia alcuna garanzia di efficacia dei provvedimenti restrittivi adottati, che potrebbero essere giustificati solo in caso di un aumento dei prezzi dovuto ad una crescita della domanda, e non per fermare una inflazione dovuta ad un deficit dell’offerta come è quella che si è generata in questi anni ( e – ci permettiamo di aggiungere – come era quella degli anni settanta generata dalla crisi petrolifera, mentre siamo ancora in attesa che qualcuno ci riferisca di una significativa crisi inflattiva dovuta ad un eccesso di domanda, verificatasi nell’epoca del capitalismo maturo. Cosa che non ci risulta! ).
Inutile dire come, in questa situazione, a soffrirne saranno principalmente i disastrati conti pubblici del nostro paese. Già oggi il nostro decennale è quotato stabilmente oltre il 4% di interessi. L’unico in Europa su questi livelli insieme a quello greco, con cui fa a gara per chi debba indossare la maglia nera. Inoltre nelle scellerate intenzioni della BCE c’è anche quella di interrompere gli acquisti di titoli di Stato dei paesi dell’eurozona. Si tratta dell’ormai famoso Quantitative Easing, attraverso il quale si sono tenuti sotto controllo per diversi anni gli spread a vantaggio dei paesi più in difficoltà, e che ora, come già previsto dalla Banca Europea, non solo sarà interrotto, ma verrà addirittura sostituito col suo esatto opposto: Il Quantitative Tightening. Non più acquisto, ma vendita sul libero mercato dei titoli di Stato dei singoli paesi, posseduti dalla BCE, con l’effetto di fare lievitare i tassi d’interesse. Una politica che sembra quasi pensata apposta per affossare i paesi più in difficoltà, con l’Italia in testa, e alla quale bisogna comunque opporsi in ogni modo possibile
Un’ultima questione a completare e chiarire il quadro generale. Nell’analisi della situazione fatta da Goldman Sachs, dalla quale siamo partiti, si dice anche che uno degli effetti prevedibili dell’inflazione sarà un sostanzioso aumento delle retribuzioni in tutta l’area euro, che dovrebbe assestarsi nel primo semestre del nuovo anno intorno ad una media variabile tra il 3,5% e il 5,% di aumento mensile. Naturalmente non si entra nel dettaglio delle variabili situazioni dei singoli paesi. Noi italiani tuttavia abbiamo tutte le ragioni per essere preoccupati. Basterà ricordare come dall’entrata in vigore dell’euro le retribuzioni del lavoro dipendente, a differenza di quanto avvenuto in tutto il resto d’Europa, sono rimaste praticamente bloccate. Anzi possiamo dire che salari e stipendi (eccezion fatta per gli alti dirigenti) sono rimasti fermi a quelli della nascita dell’attuale Europa, ai tempi di Maastricht per capirci. Pensare ora che nei prossimi mesi possa verificarsi una così clamorosa inversione di tendenza è pura fantascienza. Anzi i probabili venti di recessione fanno pensare esattamente il contrario. Questo significa che, se si dovesse rivelare vera la previsione di un congruo aumento delle retribuzioni nel resto d’Europa, l’esito sarebbe semplicemente quello di un ulteriore accentuarsi della distanza tra le condizioni di vita dei ceti popolari di casa nostra rispetto a quanto avviene nel resto del continente.
Credo che dalle considerazioni fin qui fatte dovrebbe dedursi una chiara visione dei compiti di cui una vera sinistra radicale e di classe dovrebbe farsi carico, anche come sua specifica cifra identitaria. Dal punto di vista dei ceti popolari l’unico e solo problema legato all’inflazione è quello di salvaguardare il potere d’acquisto di redditi e salari:
- Ripristinare la scala mobile per lavoratori/trici salariati/te, possibilmente attraverso un meccanismo egualitario che lega il recupero monetario al reddito medio disponibile nel paese (20.000 euro circa) e non alle singole retribuzioni.
- Contributi di uguale consistenza per famiglie, lavoratori/trici del sommerso, disoccupati/te ed indigenti. (il reddito di cittadinanza andrebbe adeguato all’inflazione. Altro che essere abrogato!).