Dal 7 al 19 dicembre si è svolta a Montreal, in Canada, la 15a COP della Convenzione sulla diversità biologica (CBD), la prima COP a svolgersi dal 2018, dopo il ritardo dovuto alla pandemia. Quest’anno la COP della CBD ha discusso il futuro contesto normativo globale in materia di biodiversità, volto a stabilire gli obiettivi e i traguardi per il prossimo decennio, al fine di affrontare la costante erosione di biodiversità senza precedenti a cui stiamo assistendo. In seguito al mancato raggiungimento degli obiettivi di Aichi fissati dalla COP10 della CBD a Nagoya, questo programma si rivelerà cruciale per definire il tono della governance della biodiversità fino al 2030.
Alcuni dei temi chiave emersi durante la COP15 riguardano le problematiche relative alla gestione finanziaria della conservazione della biodiversità, i problemi legati alle tecnologie basate sulle sequenze digitali (DSI) e la governance delle nuove biotecnologie.
A livello globale, la COP15 si è svolta in un momento cruciale in cui le aziende del settore biotech e dell’agroindustria stanno portando avanti una colossale operazione di greenwashing, al fine di promuovere le nuove biotecnologie e una serie di meccanismi finanziari come “soluzioni ecologiche”, oltre a portare avanti operazioni di lobbying per la deregolamentazione degli OGM e per immettere più rapidamente sul mercato tecnologie nuove e non testate. Le aziende sostengono infatti che queste nuove biotecnologie, come la CRISPR-Cas9 utilizzata per l’editing genico, i gene drive, il sequenziamento digitale e la biologia sintetica, insieme a meccanismi come i crediti per la biodiversità e la finanza verde, dovrebbero essere considerate soluzioni sostenibili alla crisi odierna.
Come evidenziato nel rapporto Gates to a Global Empire (Gates verso un Impero Globale) di Navdanya International, sin dal 2016 stava crescendo lo stato di preoccupazione rispetto all’influenza del settore imprenditoriale sui programmi inerenti a queste tematiche. Già da allora il linguaggio cominciava a cambiare in direzione di una visione più mercantile della natura, con la biodiversità inquadrata in funzione del suo potenziale commerciale. Da allora, la tendenza a una sempre maggiore commercializzazione della biodiversità non ha fatto che crescere.
Breve panoramica sulla Convenzione sulla Diversità Biologica e sul Protocollo di Nagoya
A seguito dell’ Earth Summit delle Nazioni Unite tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, venne istituita la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica (CBD). Come afferma la Presidente di Navdanya International, Vandana Shiva, “La Conferenza di Rio si basò sui valori della sostenibilità ecologica, della giustizia sociale e dell’equità economica – tra i Paesi e all’interno dei Paesi. È stata plasmata dai movimenti ecologisti, dalla scienza dell’ecologia e da governi sovrani sulle proprie decisioni”.
In base a questi valori vennero stabiliti gli obiettivi principali della CDB dell’ONU: “La conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile dei suoi componenti e la giusta ed equa condivisione dei benefici derivanti dalle risorse genetiche”, compresa la protezione dell’agrobiodiversità. Con lo sviluppo delle tecnologie, questo mandato include ora anche la governance delle biotecnologie, come previsto dalla CBD.
La regolamentazione relativa all’accesso e alla condivisione dei benefici della biodiversità e derivanti dall’uso delle risorse genetiche venne istituita con il Protocollo di Nagoya e il relativo quadro giuridico. Questo protocollo venne istituito per proteggere il patrimonio di biodiversità degli Stati e le conoscenze tradizionali ad essi collegate, per assicurarsi che le nazioni le cui risorse genetiche venissero utilizzate, ricevessero un adeguato compenso o condivisione dei benefici. Vennero inoltre istituiti i quadri giuridici relativi al prelievo di campioni e risorse genetiche da paesi terzi. Il tutto per combattere la bioprospezione e la biopirateria in Paesi ricchi di biodiversità. Ora, con l’evoluzione degli strumenti di digitalizzazione e delle nuove biotecnologie, il protocollo di Nagoya è in pericolo.
L’eredità degli accordi TRIPS/GATT
Poco dopo la creazione della CDB, sono stati ratificati anche gli accordi dell’Uruguay Round dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT) e le normative sulla proprietà intellettuale internazionale e sui brevetti nell’ambito dei diritti di proprietà intellettuale connessi al commercio (TRIPS), che hanno formalmente istituzionalizzato un inedito regime di libero scambio per l’alimentazione e l’agricoltura. Nell’ambito dell’accordo TRIPS/GATT, la clausola 27.3(b) diede inizio a una nuova era di imperialismo sulle sementi e sulla biodiversità, creando di fatto una scappatoia che permette di brevettare provvisoriamente gli organismi viventi e il relativo materiale genetico. La clausola recita: É possibile escludere dalla brevettabilità i vegetali e gli animali, tranne i microrganismi, e i processi essenzialmente biologici per la produzione di vegetali o animali, tranne i processi non biologici e microbiologici. Tuttavia i Membri prevedono la protezione delle varietà di vegetali mediante brevetti o mediante un efficace sistema sui generis o una combinazione dei due”.
Sebbene le opinioni sull’interpretazione di questa clausola siano divergenti, l’effetto di questo accordo ha di fatto permesso alle aziende di poter brevettare: sementi, biodiversità, piante da cui estrarre materiale genetico (come nel caso degli OGM). Negli ultimi anni, questo precedente sta permettendo a queste aziende di brevettare il materiale genetico attraverso strumenti digitali, aggirando in sostanza le regole stabilite dal Protocollo di Nagoya.
Che cosa sono le Sequenze Digitali di Informazioni (DSI)
Le sequenze digitale di informazioni (DSI) sono un tipo di biotecnologia in grado di scansionare efficacemente una serie di informazioni genetiche del genoma di un organismo, consentendo di caricarle su un database digitale. Dalla introduzione delle tecnologie di sequenziamento digitale nel 2010, miliardi di sequenze genetiche, dal DNA, all’RNA, agli aminoacidi, ai metaboliti e persino alle informazioni epigenetiche, sono state sequenziate e raccolte in vari database pubblici e privati.
Il DSI è considerato un modo per preservare e conservare in massa la diversità genetica, ma da quando si sono diffuse le biotecnologie genetiche, il DSI si è trasformato in una preziosa materia prima per le aziende biotecnologiche. Grazie alla tecnologia della biologia sintetica, le aziende private e gli istituti di ricerca possono ora scaricare le informazioni genetiche digitalizzate e ricreare sinteticamente le sequenze in laboratorio, aggirando di fatto le normative esistenti sull’accesso alla biodiversità. Grazie a CRISPR-CAS9 e ad altre tecnologie di editing genetico, questi materiali genetici ricreati sinteticamente possono essere utilizzati per alterare geneticamente gli organismi viventi. Sebbene gli usi del DSI siano molteplici, le applicazioni che riguardano l’alimentazione, l’agricoltura e le manipolazioni geniche sono quelle che destano maggiore preoccupazione.
La nuova generazione di OGM viene ora introdotta grazie alla mancanza di una solida regolamentazione in moltissime parti del mondo. Queste New Breeding Techniques (NBT), New Genomic Techniques (NGT) o, come le chiama la Commissione Europea, “piante prodotte con alcune nuove tecniche genomiche”, si spingono però anche oltre la nuova generazione di semi OGM, e si stanno estendendo ad applicazioni relative agli animali in agricoltura e ad altri organismi viventi. Si tratta di organismi geneticamente modificati altamente rischiosi, come le zanzare geneticamente modificate con un gene estintivo, che sono state rilasciate nell’ambiente in ogni parte del mondo, senza alcuna analisi sistemica e comprensione dei potenziali effetti ecologici. Le organizzazioni della società civile hanno sollecitato la CBD a considerare i pericoli e le conseguenze di questa “tecnologia di estinzione” e a porre una moratoria globale su di esse.
Come è stato ampiamente analizzato da Navdanya International, queste nuove biotecnologie vengono utilizzate anche per la creazione di rischiosi alimenti artificiali ultra-lavorati, attraverso l’uso di microrganismi modificati geneticamente per la “fermentazione” di composti chimici.
Per mezzo di fusioni e acquisizioni, licenze incrociate tra multinazionali e un accesso non regolamentato alle banche dati DSI pubbliche, le imprese sono in grado di accumulare enormi banche dati private di materiale genetico, attuando essenzialmente quella che si può definire biopirateria digitale. Ad esempio, la Gingko Bioworks, finanziata da Bill Gates, è diventata una delle più grandi aziende di biologia sintetica degli Stati Uniti. Grazie al precedente degli accordi TRIPPS/GATT in cui si aprì la possibilità ai brevetti sulle forme di vita, la Ginkgo Bioworks è ora in grado di scaricare le banche dati DSI disponibili pubblicamente, di modificare e brevettare il materiale risultante dall’utilizzo di queste informazioni, per poi creare ingredienti alimentari sintetici attraverso la sua filiale Motif Foodworks, o per applicazioni agricole attraverso la sua partnership con Bayer. Peraltro, anche i nuovi metodi di sequenziamento digitale, i meccanismi di archiviazione dei database, i meccanismi di ricerca e le tecniche di biologia sintetica possono ora essere brevettati e mantenuti come segreti commerciali da questo tipo di aziende. In questo modo viene messa in atto una vera e propria biopirateria digitale, laddove i principi del protocollo di Nagoya vengono aggirati, ignorati e bloccati.
Le preoccupazioni relative a queste tecnologie si basano sulla storia delle multinazionali e delle grandi aziende di stampo occidentale, le cui attività di monopolizzazione, privatizzazione e biopirateria hanno generato profitti miliardari a spese dell’’ambiente. L’eccessivo sfruttamento delle risorse, la creazione e dell’espansione degli OGM, la mancanza di compensazione verso le popolazioni sfruttate hanno portato a conseguenze ecologiche e sociali devastanti, dal degrado della biodiversità, all’estromissione degli agricoltori dall’accesso alle proprie sementi e alla propria biodiversità. Il rischio di queste tecnologie, se non adeguatamente regolamentate, è un’ulteriore privatizzazione della vita.
Come illustrato da José Esquinas-Alcazar, ex segretario della Commissione intergovernativa FAO sulle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura e ex presidente del Comitato etico FAO per l’alimentazione e l’agricoltura, queste nuove tecnologie sono anche oggetto dei negoziati del Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche, nell’ambito del quale, a causa del DSI, l’accesso e la condivisione dei benefici sulle risorse per l’alimentazione e l’agricoltura devono essere rinegoziati.
La finanziarizzazione della natura
In risposta all’allarmante livello di estinzione progressiva di moltissime specie viventi, il settore finanziario continua ad avanzare proposte che individuano la finanziarizzazione della natura e della biodiversità come soluzioni. Organizzazioni come Finance for Europe (AFME) e EY promuovono false soluzioni come la creazione di crediti per la biodiversità o l’istituzione di società di asset naturali (NAC) al supposto fine di fornire finanziamenti ai Paesi del Sud globale per la conservazione della biodiversità.
Queste proposte si basano in parte sulla richiesta della CBD di aumentare trasferimenti di capitale ai Paesi in via di sviluppo da parte dei Paesi più ricchi, al fine di contribuire a sostenere la conservazione e la protezione della biodiversità. In particolare, nell’ambito della bozza di quadro globale presentata a questa COP15, è previsto un aumento di 200 miliardi di dollari dei flussi finanziari “per la conservazione della biodiversità”.
Di conseguenza, il settore finanziario arriva a sostenere che i finanziamenti privati possano essere impiegati per ridurre il gap finanziario globale in materia di biodiversità e per aiutare a proteggere ciò che considerano asset naturali. Promuove quindi la continua implementazione di schemi di valutazione misurabili in termini prettamente finanziari, come le nature-based solutions, la finanza blu o i crediti sul carbonio – carbon credits, sulla biodiversità, sugli oceani e sulle terre da dedicare all’agricoltura rigenerativa. Ciò significa ridurre a meri asset finanziari la biodiversità, i servizi ecosistemici e tutto ciò che è considerato “capitale naturale”. Se questi meccanismi vi suonano familiari, è perché molti di questi schemi finanziari sono simili a quelli proposti per la finanziarizzazione del cambiamento climatico, che sono già stati smascherati come abili operazioni di greenwashing per mantenere lo status quo.
La diffusione di questo tipo di schemi era già iniziata nel 2021, quando il New York Stock Exchange (NYSE) presentò una nuova classe di asset basata sul capitale naturale, denominata Natural Asset Companies (NAC). Le NAC funzionano identificando e attribuendo un valore finanziario a un bene naturale, come, ad esempio, un pezzo di foresta pluviale in via di estinzione, o un animale in via di estinzione o un intero ecosistema. Su questa base, viene creata una NAC, che viene gestita dalla società proprietaria e quotata in borsa. La NAC genera quindi capitale finanziario attraverso il mercato azionario e il suo valore (ovvero il valore del “capitale naturale”) è determinato dal prezzo di mercato. In teoria, la NAC dovrebbe conservare, mantenere e accrescere il patrimonio naturale. In realtà, grazie a questi schemi, le NAC e chiunque creasse, valorizzasse e detenesse “crediti di biodiversità”, arriverebbe a poter arrogare diritti esclusivi su ecosistemi, servizi ecosistemici, territori, esseri viventi e processi ecologici.