Amplificando il concetto africano dell’educazione (ci vuole un intero villaggio per educare un bambino), a Torino la rivista Animazione Sociale ha riunito gli operatori dell’istruzione intorno all’idea che ci vuole una città per fare una scuola. Un social festival delle comunità educative che si sono fermate per sedersi ed ascoltare il mare partendo dalla consapevolezza che «senza la città una scuola non ce la fa, ci vuole una città per fare una scuola. Perché nelle aule – ogni mattina – entra il mondo con le sue contraddizioni […]. E d’altra parte una città, se vuole aver cura del suo futuro, non può non prendersi cura della scuola».
Oltre mille persone hanno ascoltato con attenzione e in alcuni casi lacrime gli interventi di esperti che con passione hanno raccontato come fare delle città, di ogni città, una «comunità educativa». I passi da fare sono tanti, ma sono passi che non si possono contare: è una geografia di luoghi, spazi e territori che è necessario attraversare e da cui farsi attraversare. Come ha spiegato il Sindaco di Torino Stefano Lo Russo «i fondi del PNRR per la scuola devono e verranno gestiti attraverso la co-progettazione degli interventi», riconoscendo che non si può andare da soli.
L’ex preside dell’Istituto Avogadro di Torino Tommaso De Luca si è soffermato sul fatto che «è importante che i diversi attori (scuola, assessorati, istituzioni…) e i portatori di interesse (studenti, genitori…) non si chiudano nei confini normativi o addirittura per motivi di schieramento politico. La solitudine è pensare la scuola come un mondo a sé stante, dove il mondo non si vuole che entri (per proteggersi) o per contro lasciare la scuola sola a educare rispetto a qualsiasi tipo di problema abbiano i giovani». Infatti, ha sostenuto il segretario generale della Compagnia di San Paolo Alberto Anfossi, «in genere si dice sempre, quando qualcosa non va bene, (i giovani mangiano male, i giovani non fanno sport, i giovani non sono…) dovrebbe pensarci la scuola. La scuola dovrebbe invece essere una responsabilità condivisa; ognuno deve cercare di fare la sua parte […] Noi come Fondazione investiremo 100 milioni nei prossimi tre anni, ma vogliamo contribuire anche nella riflessione».
Ma, ha proseguito, Tommaso De Luca, «è importante soffermarsi sull’indispensabilità delle alleanze con tutto il mondo fuori dalla scuola, alleanze vere che generino cambiamenti. In primis agire sul cambiamento del tempo: «La scuola vive il tempo inizio-fine, nel suono tra due campanelle, anche i saperi vanno da campanella a campanella; tutto questo andrà modificato, ma anche la struttura degli spazi andrà modificata. Passare dai progetti (occasionali) alle attività costanti (non vanno continuamente riprogettate) per dare origine alla scuola come campus (civic center). Questo richiede persone dotate di un enorme orgoglio, non solo cambiamenti politici, per coniugare come diceva Keynes efficienza economica, libertà individuale e giustizia sociale». Sono questioni di buon senso, ma come raccontava Manzoni, «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».
La sociologa Chiara Saraceno ha spiegato che «la società è così complessa e diversificata che né la scuola né la famiglia possono farcela da sole e neanche insieme; occorre l’impegno di tutta la comunità per rafforzare e sostenere la scuola, mettendo a sistema tutte le risorse esistenti (terzo settore, biblioteche, Asl, musei, fondazioni, imprese…) perché la scuola sia al centro di azioni che vanno progettate insieme. Ci sono tantissime esperienze che vanno in questa direzione, ma spesso sono progetti che vanno da un finanziamento all’altro. Occorre uscire dalla logica dei bandi, che rischiano di generare sfiducia: mobiliti, stimoli, spingi e poi lasci. Le comunità sono così sedotte ed abbandonate. La collaborazione tra i vari soggetti deve essere orizzontale, ognuno deve uscire dalla sua autoreferenzialità (gelosia del proprio specialismo) per essere fedeli all’articolo 3 della Costituzione, secondo cui bisogna “rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della personalità.” E questi ostacoli vanno rimossi precocemente».
Parole che si sono intrecciate con la passione di Elena Granata, docente del Politecnico di Milano. «L’assetto urbano è fatto per scatole: c’è ne una per la salute (ospedale), una per l’istruzione (scuola), una per l’abitare (appartamenti che ci appartano dagli altri), una per la natura (il parco), una per la cultura (museo), una per i problemi (carcere). Un assetto che non è solo urbano, ma anche esistenziale. La pandemia ha messo in evidenza che queste scatole sono insopportabili. Non possiamo delegare la salute all’ospedale, l’educazione alla scuola, la bellezza al museo. Lo spazio conta. Le scatole vanno ripensate; si fa con gli uffici, gli spazi per gli adulti, mentre per i nostri ragazzi abbiamo ancora banchi e cattedre, figli di un sapere ottocentesco e l’aula è orientata in maniera militaresca.
C’è qualcosa che impedisce alla scuola di sovvertire sé stessa. Quello che resta nei ricordi degli studenti dopo qualche anno sono le uscite, gli aneddoti raccontati dai professori e le relazioni con i compagni, perché la dimensione narrativa (l’emozione) sblocca quella parte della memoria che apre alla conoscenza. Insegniamo educazione civica e lo facciamo in classe, la fotosintesi tra i muri anziché nel bosco, c’è un deficit di esperienza dello spazio, ma nonostante tutti i problemi e le difficoltà nessuno impedisce a un docente libero di spostare i banchi. Serve poi un continuum tra il dentro e il fuori. “Lo spazio è il terzo educatore», come diceva Loris Malaguzzi.
È questa l’idea di una città educante, un luogo dove la scuola, i servizi educativi, culturali, di partecipazione, sociali e sanitari, del pubblico e del terzo settore, insieme con le reti della società civile, tessono alleanze educative. Per regalare ai giovani non solo l’istruzione, ma tutto noi stessi.
“Nikikupatia ua ni ua tu, nikikupatia mimi mwenyewe pia ni upendo”: “Se ti regalo un fiore, ti ho regalato solo un fiore. Se col fiore ti do anche me stesso, ti ho regalato l’amore“.
Proverbio africano