Che cosa sarebbe successo se, di fronte all’invasione dell’Ucraina, giunta fino a Kiev, Zelenski fosse fuggito, o si fosse arreso? O la Nato non gli avesse fornito tutte le armi che gli ha messo a disposizione? È l’argomento “forte” che tutti i favorevoli a riempire di armi l’Ucraina ritengono risolutivo. Non si può non rispondere. Ma l’alternativa a una resa di Zeleski non è, e non era nemmeno allora, la resa di Putin. Questa è la visione di chi nel proprio orizzonte non ha che la guerra.
È certamente giusto che la storia si faccia con i se. I “se” aprono l’orizzonte a molteplici possibilità, spezzando la rigida concatenazione degli eventi che riduce la libertà umana a necessità. Ma proprio per questo occorre aprirsi a una molteplicità di se: risalire indietro nel tempo, misurarsi con il presente e proiettarsi in avanti nel futuro. La guerra non è un evento ma un processo; che comincia ben prima del suo scoppio e spesso si trascina oltre la sua conclusione. Ma anche la pace è un processo, che si svolge sia in tempo di guerra che di pace. E non ha mai fine.
Dunque, andiamo all’indietro: che cosa sarebbe successo se gli accordi di Minsk fossero stati rispettati da entrambe le parti? Se le potenze che li avevano promossi, o l’Onu, li avessero fatti rispettare, invece di permettere che una guerra mai dichiarata andasse avanti per anni in una regione dell’Ucraina, preparando quella che sarebbe venuta dopo? Rispetto alla situazione attuale entrambi i contendenti si sarebbero risparmiati migliaia di morti e la distruzione, che andrà avanti, di un intero paese, senza che una sovranità nazionale rispettosa delle minoranze e delle autonomie ne avesse soffrire. Era quanto Zelenski aveva promesso in campagna elettorale e non ha rispettato, pressato da poteri e organizzazioni che ne hanno condizionato il governo.
E, continuando ad andare all’indietro, che cosa sarebbe successo se la Nato avesse rinunciato ad annettersi tutti gli Stati sottrattisi al dominio sovietico, come era stato promesso a Gorbaciov, ma anche raccomandato da numerose personalità di “fede” atlantica? Se non avesse continuato ad “abbaiare” alle frontiere della Russia con esercitazioni militari sempre più minacciose? Se non avesse fatto quanto in suo potere per raggiungere l‘annessione dell’Ucraina, e poi della Georgia, e di altro, con l’evidente prospettiva di smantellare la Federazione Russa? Ma è una scelta che quegli Stati avevano compiuto autonomamente, se non proprio democraticamente, si obietta. Sia pure, ma in una prospettiva di crescente contrapposizione e di un confronto sempre più serrato tra grandi potenze, invece della promozione di una cooperazione che era di primario interesse per tutta l’Europa.
D’altronde la Nato è una gabbia da cui, una volta entrati, è impossibile uscire, perché trascina i suoi membri in conflitti che nulla hanno a che fare con i loro interessi e perché le classi dominanti trovano in quell’affiliazione un puntello inaggirabile del loro dominio.
Facciamo un altro passo indietro. Più o meno cinquant’anni fa – è stato scritto – una potenza nucleare come gli USA aggrediva uno Stato e nessuno di noi contestava il suo diritto di resistere con le armi. Gridavamo “Vietnam vince perché spara” e forse molti di noi oggi non lo griderebbero più. Il Vietnam ha vinto: hanno vinto le sue classi dominanti. Ma il Fln (Fronte di Liberazione Nazionale) ha perso, inghiottito di chi aveva più armi per combattere gli Usa. Quel conflitto, comunque, non era mai assurto a confronto diretto tra potenze nucleari, nonostante l’appoggio che Urss e Cina fornivano ad Hanoi. Nessuno però si era o si sarebbe mai dichiarato contrario a un cessate il fuoco immediato prima che le truppe statunitensi si fossero ritirate dal paese. E se un cessate il fuoco avesse avuto luogo, forse in Vietnam si sarebbe potuto arrivare a una soluzione soddisfacente prima che il coinvolgimento di Hanoi creasse le condizioni di una mera annessione.
Ora, venendo al passato recente, certo Putin pensava di ripetere l’operazione che era riuscita a Breznev con la Cecoslovacchia di Dubcek e, vedendola fallire, si è vendicato lasciando mano libera o ordinando alle sue truppe di compiere ogni sorta di infamia (non che il nemico aggredito sia andato con la mano leggera, né prima né dopo l’invasione. Ma è la guerra…). Comunque, l’esercito e le milizie ucraine avevano già ricevuto armi a sufficienza (usate nella guerra al Donbass) per resistere a un esercito numericamente, se non tecnicamente, superiore. Ma nessuno ha mai contestato all’Ucraina – all’Ucraina, non alla Nato – il diritto di resistere ed è chiaro, ed era chiaro anche allora, che Putin non ha le forze per occupare e tener sotto controllo tutto il paese. Senza una resa di Zelenski si sarebbe comunque sviluppata una situazione di conflitto endemico su molti fronti ed è lì che occorreva intervenire: non con le armi, ma con una proposta di mediazione che aggiornasse gli accordi di Minsk alla luce della nuova situazione. Proposte in tal senso – peraltro irrise – sono state avanzate recentemente, come base di partenza di un possibile negoziato, sia da alcuni intellettuali che da un gruppo di ex diplomatici.
Ma chi poteva, e doveva, promuovere quella mediazione? Non certo Erdogan, che ha le mani altrettanto insanguinate di Putin; né Xi Jinping, che non ha certo interesse ad alienarsi la Russia in una prospettiva di crescente conflitto con gli USA. Avrebbe dovuto farlo l’Unione Europea, che aveva tutto l’interesse a non far precipitare la situazione e aveva ed ha delle carte da giocare, a partire dall’ingresso dell’Ucraina nell’Unione, ma senza Nato, e dei suoi commerci con la Russia. Ma non lo ha fatto perché le sue classi dirigenti sono totalmente asservite alla Nato, che rappresenta gli interessi esclusivi degli USA, che dal conflitto in Ucraina non vengono minimamente danneggiati. Non è stato fatto e nessun governo o partito di opposizione degli Stati dell’Unione Europea ha portato avanti una proposta o una rivendicazione in tal senso. Perché? Perché i mediatori non possono armare una delle parti. È una cosa elementare, ma che nessuno, a partire dal favoloso Draghi, sembra aver capito.
E ora? Ora la consegna massiccia all’Ucraina di armi sempre più potenti ha completamente cambiato il conflitto, trasformandolo in un confronto diretto tra Federazione Russa e Nato. Sono armi non solo costosissime, ma che per funzionare hanno bisogno di assistenza: di istruttori, contractors e consulenti stranieri, dei droni di Sigonella, dei radar del Muos di Niscemi, dei satelliti di Musk (un esempio istruttivo di partnership pubblico-privato) nonché di una stampa asservita, che è un’arma potentissima, in gran parte del resto del mondo. Si farà la pace, a qualsiasi condizione, solo quando e se quella guerra non converrà più al governo degli Stati Uniti, rischiando nel frattempo l’ecatombe nucleare. Perché Putin non è un pazzo, ma è uno che per la posizione che occupa non può permettersi di perdere come se lo poteva permettere invece il governo degli Stati Uniti in Corea, in Vietnam e in Afghanistan, in Siria.
E il futuro? Il futuro è tutto della crisi climatica che incombe e incalza su tutto il pianeta. Se l’olocausto nucleare è una possibilità tutt’altro che remota, la catastrofe climatica, senza misure radicali, è invece una certezza assoluta. Coloro che promuovono le armi (e non solo all’Ucraina; quanto di questo fervore bellico ha contribuito ad alzare i budget della cosiddetta difesa e ad allontanare il bando delle armi nucleari votato dall’Onu?) sono un esempio palese di dissociazione mentale. Molti di loro sanno perfettamente che la crisi climatica è alle porte, ma se ne occuperanno “dopo”: dopo la vittoria su Putin. Cioè mai. Esattamente come fanno i negazionisti: quelli tetragoni come quelli che lo sono nei fatti, cioè tutte le classi dirigenti del mondo.
E invece no. La lotta contro la crisi climatica – per arginarla, non certo per sventarla, dato che ormai è irreversibile – è innanzitutto una lotta per la pace, contro le guerre e contro le armi; contro le loro emissioni, che sono enormi; contro le loro distruzioni, che esigono di produrre nuove armi, di ricostruire case, impianti e infrastrutture nuove con altro consumo di materiali ed energia; che degradano il suolo e miliardi di esseri viventi indispensabili all’equilibrio ecologico del pianeta. Ma il passaggio obbligato è sempre lì: nella comprensione che l’autonomia di una comunità non è un’offesa alla sovranità di un popolo, ma la sua esaltazione. Che i confini non sono barriere da sacralizzare, ma faglie sopra cui gettare ponti. Che le armi prodotte e vendute, comprese quelle nucleari, chiedono di essere usate in sempre nuove guerre. Quante più armi, tante più guerre. Quanto più letali, tanto più rampa di lancio dell’apocalisse.
La COP27 sui cambiamenti climatici aperta domenica a Sharm el Sheik sotto il patrocinio di Al Sisi e – non solo per questo – destinata comunque al fallimento, potrebbe riscattarsi dal pantano in cui è affondata questa partita mettendo in chiaro una volta per tutte una cosa sola: che la lotta contro la crisi climatica comincia da quella contro guerre ed armi. Sarebbe un grande successo.