Con il 93% delle schede scrutinate, in attesa dei risultati ufficiali, è ormai chiaro il quadro che emerge, insieme con lo scenario politico che si va delineando, a seguito delle elezioni politiche in Israele. La coalizione nazionalista e religiosa, una vera e propria coalizione, come vedremo nel dettaglio, di destra radicale, costruita, in maniera tanto abile quanto spregiudicata, da Benjamin Netanyahu, è la netta vincitrice di questa tornata elettorale; pesante la sconfitta del blocco liberale e “moderato” guidato dal premier uscente Yair Lapid; mentre il partito storico della sinistra sionista, Meretz, non supera la soglia di sbarramento del 3.25% e dunque non avrà rappresentanza alla Knesset, il parlamento israeliano, parlamento monocamerale con 120 seggi.
Sulla base di questo conteggio dei voti dunque, e fatte salve eventuali, possibili, piccole modifiche nel riparto numerico, la coalizione di destra di Netanyahu ottiene 65 seggi, suddivisi tra il partito del capo del governo in pectore, il Likud, con 32 seggi; il partito radicale di estrema destra, Sionismo Religioso, con 14 seggi; quindi i partiti religiosi ortodossi, Shas, con 11 seggi, e United Torah Judaism (Ebraismo Unito della Torah), con 8 seggi; mentre, sul versante delle opposizioni, Yesh Atid, il partito liberale di Yair Lapid, si ferma a 24 seggi, quindi Unità nazionale, con 12 seggi; Yisrael Beytenu, 5 seggi; Ra’am, 5 seggi; l’aggregazione di sinistra Hadash-Ta’al, 5 seggi; e il partito Laburista ad appena 4 seggi; come accennato poc’anzi, dunque, Meretz è di poco al di sotto della soglia di sbarramento del 3.25% e il partito arabo Balad è pure intorno al 3%.
Il cosiddetto “campo nazionale” che forma la maggioranza a sostegno di Netanyahu è una combinazione politica di oltranzismo e fondamentalismo, retto sull’asse tra il partito conservatore, l’espressione storica della destra israeliana, il Likud, e la destra religiosa: lo Shas (che rappresenta principalmente gli ebrei ortodossi sefarditi e mizrahì), Ebraismo Unito della Torah (che rappresenta principalmente gli ebrei ortodossi ashkenaziti), Sionismo Religioso (la destra radicale sionista che, al suo interno, ospita esponenti neo-kahanisti, eredi della vecchia formazione Kach, messa al bando e considerata organizzazione terroristica tanto dagli USA quanto dalla UE).
La maggioranza più a destra
Nel suo discorso post-elettorale, Netanyahu non si è limitato a una rapida lettura dell’esito del voto, ma ha anche impostato i termini di un messaggio politico decisamente di destra e fortemente identitario, anche a dispetto delle previsioni di quanti, tra gli analisti, avevano immaginato, da parte sua, un discorso, a urne chiuse, dai toni più equilibrati, se non altro per bilanciare le note posizioni estremiste proprie, in particolare, dei suoi alleati di Sionismo Religioso. Ha definito il successo elettorale del Likud «una enorme espressione di fede».
Ha ovviamente esaltato il Likud come «di gran lunga il più grande partito in Israele» (anche un messaggio per precisare i rapporti di forza nei confronti degli alleati in vista delle trattative e dei negoziati per la composizione del nuovo governo); si è significativamente rivolto agli alleati di maggioranza come partner del «campo nazionale», confermando dunque la connotazione politica della maggioranza e, sulla medesima falsariga, ha promesso di «ristabilire l’orgoglio nazionale che ci è stato sottratto». Come pure è stato sottolineato, la traduzione, in chiave interna, di questo messaggio, consiste nella rivendicazione del primato di Israele come “Stato ebraico” prima che come “Stato democratico”: nelle parole di Netanyahu, «uno Stato ebraico, uno Stato che rispetti i suoi cittadini, ma in definitiva uno Stato ebraico». Ancora nelle parole del capo del governo in pectore, «assertivo nel proteggere la nostra sicurezza e nella ricerca della pace con i nostri vicini». «Garantiremo la sicurezza, ridurremo il costo della vita, ripristineremo Israele come potenza emergente tra le nazioni».
Come ha scritto, sul Times of Israel, David Horovitz, infatti, «i partiti ultra-ortodossi, con i loro membri della Knesset, tutti uomini, sono cresciuti. E così anche, in particolare, Sionismo religioso, guidato da Smotrich, che ambisce a un Israele gestito secondo le leggi della Torah, e Ben Gvir, il cui manifesto politico più recente di Otzma Yehudit sostiene l’annessione della Giudea e Samaria biblica per uno Stato ebraico allargato in cui ai palestinesi della Cisgiordania verrebbero negati uguali diritti. Negli ultimi anni, … Netanyahu si è allontanato anche solo dal mero principio di una soluzione a due Stati, … che garantirebbe a Israele di mantenere sia la sua natura ebraica sia la sua natura democratica. Significativamente, nel suo discorso martedì sera, ha sottolineato l’identità ebraica del Paese ma non ha voluto pronunciare la parola “democrazia”.
Una vera e propria deriva
Il popolo, ha detto, vuole uno Stato ebraico, … ma questo è uno Stato ebraico, il nostro Stato nazionale». Un segnale, si può aggiungere, che non manca di suscitare preoccupazione e inquietudine, in tutte le direzioni: rispetto alle prospettive di pace nella regione e agli esiti dell’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi; rispetto allo stato dei diritti e alle prospettive del progresso sociale in Israele; rispetto, più in generale, alla questione stessa della democrazia. Pensiamo solo al recente attacco ai danni di sei organizzazioni per la difesa dei diritti umani, tra le più significative e riconosciute a livello internazionale: Al Haq – un’associazione per i diritti umani, Addameer – un’associazione di sostegno ai prigionieri -, Bisan – un centro di ricerca e sviluppo per le comunità palestinesi emarginate, Defence for Children International – Palestina, Unione dei comitati del lavoro agricolo, Unione dei comitati delle donne palestinesi.