Durante la Covid-19 vi è stata una sospensione di giudizio politico su tutto ciò che i governi hanno approvato: un periodo di “tenebre epistemologiche”, per dirla con l’antropologo Taussig. Di questo ne parliamo con Stefania Consigliere, antropologa presso il Dipartimento  della Formazione dell’Università di Genova, dove insegna Antropologia dei Sistemi di Conoscenza e dove ha organizzato due edizioni del master di secondo livello in etnomedicina ed etnopsichiatria. Tra il 23 e il 25 aprile 2021 è stata tra le promotrici del convegno “Tutta un’altra storia”12, un luogo di dibattito critico a sinistra in cui scienziati sociali e compagni hanno discusso sulle politiche pandemiche, sulla gestione medica ufficiale, sui Dpcm, sullo Stato d’eccezione permanente, sull’obbligatorietà vaccinale, sul pluralismo terapeutico, sul concetto olistico di diritto alla salute e sulle politiche punitive e autoritarie del Green Pass. Ecco di seguito l’ultima parte.

Stato d’eccezione, linguaggio bellico, obbligo vaccinale e discriminazione basata su un trattamento sanitario sono tutte questioni che, anche buona parte della sinistra alternativa, ha definito “non-temi” come se fossero temi inutili da trattare e su cui non spendere energie. Cosa si sente di rispondere? Non è proprio quella sinistra antagonista ad un tipo di sistema che dovrebbe interrogarsi sul mondo che cambia e come il potere, nelle società capitaliste occidentali, cambia?

Qualcuno ha parlato, giustamente, di strage delle coscienze nella sinistra di movimento. Una parte del problema dipende, come appena detto, dalla violenza psichica e materiale delle politiche pandemiche. Per molti, in una varietà di circostanze, è stato preferibile tacere – e d’altra parte, l’introiezione dell’impossibilità di contraddire la versione ufficiale è uno degli effetti paradigmatici della censura. Ci vuole una certa dose di temerarietà per andare davvero «in direzione ostinata e contraria» quando si rischiano danni personali gravi. Sicché gran parte di coloro da cui ci si sarebbe aspettata almeno una parola – la sinistra antagonista, ma poi anche i docenti e, in particolare, gli universitari (magari quelli che hanno fatto carriera discettando di Foucault o di questioni LGBTQI+) – hanno taciuto. Il convegno organizzato a Napoli dal gruppo «Tutta Un’Altra Storia» (tuttaunaltrastoria.info) ne testimonia a sufficienza: chiamati a raccolta per “dire qualcosa di sinistra”, gli accademici sono rimasti a casa.

Un’altra parte di questo problema ha invece una genesi più antica. Dall’inizio degli anni Ottanta, con la chiusura del “decennio Sessantotto”, il neoliberismo costruisce mondo e umanità a sua immagine e somiglianza: assoggettamento integrale al mercato, competizione di tutti contro tutti, rescissione dei legami di senso, distruzione delle ecologie, umani “modulari” e trasparenti, estrattivismo, controllo capillare, trionfo dello Spettacolo (alla Debord) e massiccia diffusione di shot tossici (zucchero, droghe legali e illegali, pornografia) che servono a compensare un’esistenza così schifa. Ciò ha profondamente modificato il nostro rapporto con il corpo (che è diventato, a tutti gli effetti, una macchina prestazionale); con la salute (che è diventata una specie di “tesoretto individuale”); con la malattia (che non ha più alcun valore esistenziale ma è solo un intralcio o un pericolo); col corpo degli altri (diventato meramente fungibile in un orizzonte di reciproco sfruttamento); e con la morte (che è diventata il non senso assoluto, qualcosa da rimuovere il più rapidamente possibile perché, nell’orizzonte del godimento coatto, è impossibile farci i conti). È difficile immaginare che chi fa parte della sinistra alternativa abbia potuto sfuggire del tutto a questa plasmazione antropologica.

Tanto più che, da un secolo e mezzo, il machomarxismo si occupa solo di “cose materiali”, derubricando ogni percorso di “cura di sé” e della propria relazione col mondo a mero intimismo, fuga dalla lotta o escapismo borghese, una sensiblerie da lasciare, tutt’al più, alle compagne donne. E invece è difficile lottare contro un sistema di dominio senza osservare, dentro di sé, tutti i punti in cui siamo dominati e consenzienti; ingenuo pensarsi non-razzisti senza scavare a fondo nei presupposti del colonialismo; pericoloso dirsi libertari senza fare i conti con il Giano Bifronte detto “Stato”; velleitario sognare la “liberazione dei desideri” senza decostruire la nostra dipendenza da shot tossici. Insomma, nell’antagonismo ho visto tanto cuore, come sempre, ma poco studio; molte buone intenzioni, ma poco discernimento – sicché poi, alla fine, si è scambiato l’egoismo che veniva dalla paura del virus per altruismo nei confronti dei “fragili” e uno strumento zoppicante, coperto da brevetto e figlio di una guerra geopolitica fra holding farmaceutiche per una “medicina del popolo”.

Altro tema riguarda il Green Pass, il lasciapassare sanitario con cui lo Stato ha, de facto, “sequestrato” (o indotto al sequestro “consenziente”) i nostri dati sensibili sanitari, i nostri Big Data, attraverso un nuovo sistema di controllo del tutto nuovo. I capitalisti della sorveglianza vogliono riportare l’utopia al centro del nuovo capitalismo?

La loro utopia, non certo la nostra… Qui s’intravede la linea di tendenza di tutta questa enorme “operazione pandemica”: la transizione a un nuovo modo produttivo e alla forma di umanità che questo nuovo modo richiede.

Penso sia utile un richiamo al capitolo 24 del primo libro del Capitale, in cui Marx descrive la cosiddetta accumulazione originaria. La domanda che lo muove è semplice solo all’apparenza: se il capitalismo nel quale nuotiamo è un fenomeno storico, come ha fatto a imporsi su altre forme di organizzazione del mondo fino a farci dimenticare perfino la possibilità di altri modi di vita? La risposta, com’è noto, è stata difficile sia da trovare che da enunciare: l’accumulazione originaria – primo nucleo di ciò che, poco dopo, sarebbe diventato capitale – è stata possibile grazie alla gigantesca violenza storica che ha espropriato i contadini dell’uso delle terre (le celebri enclosures), rendendo impossibile la riproduzione della loro forma di vita e trasformandoli in torme di miserabili pronte a gettarsi nella sofisticata forma di schiavitù detta “salariato”.

Fin qui è storia nota. Meno nota, invece, è una linea critica sviluppata nell’antagonismo USA alla fine degli anni Novanta, che interpreta l’accumulazione originaria (e quindi l’esproprio dei beni comuni) non solo come momento iniziale del capitalismo, ma come sua condizione di possibilità: per produrre plusvalore è necessario, periodicamente, che il sistema capitalista estenda la sua presa, che avochi a sé quel che gli umani continuamente inventano, scambiano, fanno vivere. Il capitalismo, insomma, è un incessante espropriazione del comune.

Se ora, marxianamente, consideriamo la transizione al digitale come ennesima ristrutturazione dell’impianto produttivo capitalista, un po’ di cose si chiariscono. Come ogni ristrutturazione, anche questa si basa sulla distruzione del terriccio della vita comune (v. la catastrofe della piccola e media impresa, la distanza fisica fra le persone, l’onnipresenza dell’intermediazione tecnica); sull’appropriazione e sulla privatizzazione (dei nostri dati, inclusi quelli relativi ai nostri corpi o al funzionamento del nostro genoma); sull’intreccio perverso fra protezione e disciplinamento (come nel caso del ricatto salariale, tutto giocato sulle linee di classe); e sull’imposizione di una “nuova normalità” affettiva, economica, lavorativa che va, ovviamente, a discapito del 99% di noi tutti. Il capitalismo ha bisogno di distruzioni periodiche: se, fino a tre anni fa, questo era visibile soprattutto fuori dai nostri confini, oggi la distruzione investe anche noi, cittadini dell’Occidente (ex?)coloniale, che per una settantina d’anni c’eravamo creduti al riparo dalle nefandezze imposte altrove.

In un certo senso, la crisi pandemica ci costringe a guardare ciò che eravamo tenuti a disvedere: il Progresso, tanto celebrato dai manuali scolastici, non è la porta di un paradiso post-storico di benessere per tutti, ma una serie infinita di orrori storici (dallo sterminio delle popolazioni amerindie alla tratta atlantica, dai roghi delle streghe alle enclosures, dall’estrattivismo ai totalitarismi). Distruggendo le garanzie conquistate dalle lotte, ci riversa addosso le ricette più classiche dell’assoggettamento integrale di intere popolazioni: propaganda, guerra, militarizzazione del quotidiano, impoverimento diffuso, polarizzazione sociale, ricerca del capro espiatorio. Vecchi trucchi che funzionano sempre.

Ha citato più volte gli zapatisti nei suoi articoli in critica alla gestione securitaria della sindemia. Possiamo partire da loro per decolonizzare il nostro modo di narrare e di pensare contro i pensieri unici e le semplificazioni?

Possiamo partire da loro, così come da tutte le sperimentazioni che, in giro per il mondo, adesso e nel passato, hanno provato a immaginare e praticare forme di vita basate sull’uguaglianza anziché sulla gerarchia, sulla collaborazione anziché sullo sfruttamento, sulla molteplicità delle traiettorie (soggettive e collettive) anziché sull’uniformazione, sul desiderio anziché sulla procedura, sulla festa anziché sulla vittoria, su un rapporto attento e amorevole con l’immaginario anziché sulla sistematica squalificazione di tutto ciò che non sappiamo o non riusciamo a capire. Credo che la parola chiave di tutte queste ricerche sia autonomia: mondi, spazi e collettivi costruiti senza usare (o usando il meno possibile) gli “strumenti del padrone”. Possiamo quindi imparare anche dal comunalismo del Rojava, dallo yearning delle femministe black americane, dai rituali delle comunità andine che resistono all’agrobusiness, dal rapporto con il non-umano (piante, animali, cieli, spiriti) delle popolazioni amazzoniche, dalla “sapienza delle relazioni” dell’Africa subsahariana, e via dicendo.

E se queste esperienze ci arrivano da altrove come ispirazioni e aperture di cuore, bisogna poi subito aggiungere che anche vicinissimo a noi ci sono “cerchi magici” dove qualcuno cerca di dare spazio a logiche diverse da quella che governa l’economia, il lavoro, le istituzioni e i social. Ci sono gruppi che non hanno mai smesso di interrogarsi sul presente e di chiamare a raccolta i refuseniks del sistema. C’è chi prova a far vivere una casa, un collettivo, un territorio fuori dalla dinamica della violenza e della competizione. Chi, con una laurea in tasca, va a scuola dai pastori. Chi studia le erbe. Chi riprende dolcemente contatto con l’immaginario, i sogni, le forme altre di esperienza. Chi va a cercare “teorie altre” nelle profondità della scienza e chi nei passati perduti della filosofia e della storia. Ci sono eredità magnifiche da recuperare e far transitare nel futuro, sia nei meandri del nostro passato che nelle conoscenze e nelle forme di vita degli altri. Di fatto, se non fosse così atroce, il momento sarebbe magnifico – e forse la saggezza che ci è richiesta, oggi, è di sapere che non possiamo tagliar via nulla: nella nuttata che ha da passa’ ci saranno lupi e lune piene, grida e canti, incubi e abbracci.

 

Prontuario bibliografico

Baroni W., Boni F., Consigliere S., Petti G., 2022. Spettri della pandemia. PM Edizioni, Varazze (SV).

Boni S. et al. (2022), Antropologia di una pandemia, Terra Nuova, Firenze 2022

Green T. (2021), The Covid Consensus. The New Politics of Global Inequality, Hurst & Co., London 2021.

Lello E. & Bertuzzi N., a cura di (2022), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Castelvecchi, Roma 2022.