L’incognita di cosa troveremo – o non troveremo, perché mica bisogna essere sempre ossessionati dal raggiungere una meta o dal trovare qualcosa – dopo il grande passaggio della morte, resta un mistero che, forse, risolveremo solo lì, e ciascuno di noi probabilmente a suo modo. Un mistero restano anche gli effetti sull’ambiente di una recente… moda? abitudine? possibilità? che ha a che fare proprio con la fine della vita e con un contributo che potremmo dare alle barriere coralline. Sì, sembra strano. Lo è, in effetti. Cerchiamo di capirci qualcosa.
Janet Hock è docente in odontoiatria a Indianapolis e una sommozzatrice con un amore a lungo termine per l’oceano, un mondo sterminato e subacqueo che pullula di vita tanto quanto le terre emerse. E che ha inserito nel suo testamento: “alla mia morte voglio diventarne parte”. Se piano piano ci stiamo abituando, non solo alle ormai abbastanza diffuse volontà di cremazione, ma anche alla possibilità che le nostre ceneri possano essere sparse nell’ambiente naturale o piantate assieme a un albero, quella di essere sepolti in mare sembra ancora una richiesta inusuale. In pratica, la cosa funziona così: con le ceneri derivate dalla cremazione viene creata una sorta di cupola di cemento con dei fori, nota come “reef ball”, una palla nella barriera corallina. Questa struttura viene posta sott’acqua e diventa parte di una barriera artificiale, aprendo la strada a una seconda vita sul fondo del mare.
Quali benefici? Al di là di un pensiero consolatorio che accompagna in vita all’idea di riposare eternamente in un luogo con il quale percepiamo una forte connessione, questa sepoltura ancora poco conosciuta promuove vantaggi per la vita che sott’acqua rimane, simulando alcune caratteristiche delle barriere coralline che, in gran parte del mondo, sono a rischio a causa dell’inquinamento, dello sfruttamento eccessivo della pesca e dell’acidificazione degli Oceani: con queste cupole si garantiscono strutture di riparo per i pesci che possono nuotare attraverso i fori, nonché uno spazio di crescita per le piante. Perché le barriere sono essenziali per la protezione delle coste e per il mantenimento in salute degli ecosistemi marini.
Il servizio è fornito da Eternal Reefs, un’organizzazione benefica con sede in Florida che offre “un modo per restituire dopo la morte, contribuendo a rinvigorire un ecosistema in sofferenza come quello della barriera corallina”. Le sfere di cemento sono a pH neutro, misurano circa 1 metro di altezza per 2 di diametro, per un peso complessivo tra i 250 e i 1800 kg, con una superficie ruvida che permette alle piante marine e a forme di vita come i coralli e le alghe di crescere aggrappandovisi. Dati confermati anche dalla Neptune Memorial Reef, altra compagnia della Florida che segnala come le barriere artificiali ospitino 56 specie di pesci, così come spugne, coralli, ricci di mare e granchi; e dalla Solace Reefs, che al di qua dell’Atlantico installa cupole al largo delle coste di Portland (UK) e testimonia la formazione di nuovi ecosistemi intorno alle strutture.
Sono proposte che hanno riscosso un certo successo: durante la pandemia i numeri delle richieste per questo tipo di tumulazione sono triplicate (ad oggi la Eternal Reefs ne ha installate circa 3000 in 25 siti, per un “modico” costo che spazia tra i 3.000 e i 7.500 dollari e che concorre a finanziare la costruzione di nuove cupole).
Si tratta di una prospettiva che non solo aggancia persone che amano il mare e che credono nel contributo rigenerativo che possono offrire alla vita marina, ma che risale a un desiderio che ci appartiene da millenni, con testimonianze di “sepolture” in mare sia nell’antico Egitto che nell’antica Roma. Nel sud del Pacifico, i corpi venivano deposti su apposite canoe e spinti al largo, in Asia avviene ancora oggi la dispersione delle ceneri nell’Oceano ed era usanza dei Vichinghi bruciare le barche con i corpi dei propri eroi venuti a mancare.
Oggi, questa possibilità risuona in quelle anime in cerca di alternative eco-friendly alle tradizionali forme di sepoltura e cremazione, che hanno come svantaggio da un lato un uso importante del terreno e dall’altro forti emissioni di CO2. Alternative che aggirano l’opzione alternativa, e probabilmente ancora più ecologica ma sicuramente meno poetica, che i nostri corpi siano sciolti in una botte di acciaio, anche se è un futuro non molto distante.
Se però da un lato l’idea riscuote approvazione, per esempio quella dei biologi dell’Università di Edimburgo, che considerano positivi sia la struttura di sostegno per le forme di vita subacquee sia il fatto che, contenendo resti umani, è più difficile che venga profanate proprio dalla mano dell’uomo, dall’altro lato questa prospettiva suscita inevitabilmente delle perplessità, legate per esempio al fatto che è ancora necessaria la cremazione, operazione che in media rilascia in atmosfera per ciascun corpo 400 kg di CO2, dato che sembrerebbe avvallare l’ipotesi che, per fare davvero qualcosa di buono per l’ambiente, non bisognerebbe scegliere affatto la cremazione. Senza contare che le barriere artificiali utilizzano il cemento, responsabile dell’8% delle emissioni, con un costo ambientale molto elevato.
È quindi un modo come un altro per fare greenwashing anche sulla morte? C’è chi sostiene che la migliore sepoltura sia ancora quella classica dell’interramento, magari in bare compostabili e meno impattanti del legno verniciato, come quelle in fibra di fungo, anche se, considerata la quantità di inquinanti e di prodotti chimici che ci portiamo dentro (per dirne solo una, medicine e antibiotici), anche tornare alla Terra non è farle proprio un gran regalo. È un tema intricato, come molti altri che ci riguardano e che hanno a che fare con il nostro impatto sulla vita che ci circonda, che ci riporta, con ancora maggiore forza, al vero fulcro del problema: perché non ci diamo davvero una mossa a mettere in campo quelle azioni necessarie per proteggere il Pianeta, mentre siamo ancora vivi, in modo da poter alla fine morire in pace?