La questione energetica è divenuta l’argomento prioritario dell’agenda politica mondiale, ma il modo in cui viene affrontata in sede internazionale pone seri interrogativi sull’esito finale che ne potrà risultare.
Più volte ho espresso il mio disaccordo1 sulle aspettative riposte, anche da buona parte del mondo ambientalista, nella transizione energetica, la quale altro non è che una surrogazione di fonti di energia nell’ambito del modello di sviluppo consolidato che, secondo gli auspici di tutte le istituzioni nazionali ed internazionali, è atteso incrementare il consumo delle risorse naturali della Terra, sia per l’avvento della IV rivoluzione industriale, sia perché il passaggio dal ciclo dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili comporterà un aumento considerevole dell’estrazione di materie prime. Quest’ultimo aspetto, inoltre, si presenta come un vero e proprio “detonatore planetario” in grado di scatenare nuove guerre, per il fatto che molti minerali (le Terre Rare, ma non solo) assolutamente indispensabili alla produzione delle rinnovabili e dell’idrogeno, sono concentrate in paesi come Cina, Russia e Vietnam, in cui la Cina detiene anche il monopolio mondiale della raffinazione (Terre Rare).
Questa situazione, già prima dell’apertura del conflitto ucraino, aveva determinato ritardi ed aumento dei costi nella produzione di auto elettriche con effetti analoghi nel settore delle turbine eoliche, sintomi non trascurabili di una generale difficoltà a realizzare nei tempi previsti gli obiettivi principali della transizione: -45% delle emissioni di CO2 entro il 2030 e zero emissioni entro il 2050. Tanto era evidente questa difficoltà che la Commissione europea, pressata da Francia e Germania, aveva introdotto nella Tassonomia UE il nucleare e il gas come “energie di transizione” e quindi finanziabili con fondi pubblici, sia pure a determinate condizioni.
Il corso della guerra in Ucraina ha stravolto questo andamento inducendo l’Europa a rivederne alcuni aspetti, che però si presentano disastrosi alla luce delle ultime decisioni prese dalla commissione europea.
Sanzioni “a la carte”
Fin dall’inizio del conflitto l’Europa ha imboccato la strada delle sanzioni verso la Russia, dimenticando tutto il pregresso che si era accumulato negli ultimi otto anni: la questione del Donbass in cui l’Europa (attraverso la Francia e la Germania) si era fatta garante degli accordi di Minsk; il rifornimento continuo di armi a Kiev da parte statunitense su cui non aveva osato dire una parola; l’ulteriore espansione della Nato verso est (che prevedeva l’ingresso dell’Ucraina), per finire con il blocco del gasdotto Nord Stream 2 a dicembre del 2021 (voluto dagli USA), opera realizzata di comune accordo da Russia e Germania, ma silenziosamente gradita a tutti gli altri governi europei perché avrebbe posto fine alle incertezze sulla fornitura del gas russo proprio perché questo non sarebbe più passato in territorio Ucraino.
Da parte russa non si può dire che in questi otto anni siano mancati i tentativi di invitare Stati uniti, Nato ed Europa a discutere della situazione geopolitica, ma pur non volendo considerarli per non fare sconti a Putin, è un fatto che la Russia non ha operato ritorsioni fino a quando l’applicazione delle sanzioni ha raggiunto livelli estremamente ostili. Due i casi, entrambi recenti: il primo quando Gazprom (15 giugno) ha ridotto le forniture di gas per il fatto che la stazione di pompaggio di Vyborg (l’ultima in territorio russo) non disponeva di turbine di ricambio in quanto mesi prima erano state inviate in Germania (essendo di fabbricazione Siemens) per la revisione periodica e non erano tornate indietro nei tempi previsti. L’informazione che ne è seguita ha stravolto completamente la realtà accusando la Russia dell’ennesima malvagità mentre invece è provato che queste turbine sono state inviate a suo tempo in Canada (presso una filiale Siemens) dove erano già in vigore le sanzioni contro la Russia e lì sono rimaste bloccate, come hanno confermato i diretti interessati.2
Il secondo caso riguarda l’oblast (regione) di Kaliningrad che è una enclave russa in territorio Lituano, dove pochi giorni fa non sono più transitate merci da e per la Russia a causa delle sanzioni, provocando le proteste di Mosca. La Lituania e l’Europa hanno detto che l’applicazione è corretta e che la Russia mente, ma a leggere il regolamento europeo sulle sanzioni, Art. 3 Terdecies, si legge che esiste il divieto per qualsiasi vettore russo di trasportare merci all’interno del territorio della UE, fatta eccezione per la posta e per “ le merci in transito attraverso l’Unione tra l’Oblast di Kaliningrad e la Russia, purché il trasporto di tali merci non sia altrimenti vietato dal presente regolamento” (par.2, comma b).3
Ora, tenendo conto che le merci soggette a restrizione sono una infinità, questa dizione suona un po’ come il famoso “comma 22”, ma solo se si è in malafede. Tutto il regolamento infatti è finalizzato a stabilire ciò che è vietato importare o esportare tra la Russia e l’Unione, cosa che non si configura per le merci in transito in Lituania da e per Kaliningrad (fattispecie non a caso prevista nel regolamento) perché trattasi dell’obbligo di servitù e contestuale diritto di passaggio, universalmente riconosciuti in tutte le legislazioni del mondo. D’altra parte a leggere bene il regolamento delle sanzioni, si nota che sono escluse le fonti di energia importate dalla Russia (Carbone e gas) e perfino tutte le attività riguardanti il nucleare civile, cioè combustibile nucleare, rifiuti radioattivi e tutta la componentistica relativa al funzionamento dei reattori! Stessa cosa l’ha fatta Biden che con l’ordine esecutivo del marzo scorso dove ha vietato il commercio con la Russia di combustibili fossili, ma non dell’uranio che seguita ad essere importato negli USA in base al programma “Megaton to Megawatt”.
Insomma l’Occidente (a questo punto mi sembra giusto usare questo termine) dice che siccome la Russia si comporta male, la punisce con le sanzioni commerciali, ma pretende che certe merci la Russia gliele fornisca ugualmente. Potremmo aggiungere la questione del grano, assolutamente falsa nei numeri (secondo la FAO quello ucraino è il 3,2% della produzione mondiale) e nelle responsabilità (i porti sono stati minati dall’Ucraina e la NATO ne è corresponsabile), che però fa apparire Putin e la Russia come affamatori del mondo.
Strategie energetiche
Questo braccio di ferro sulle sanzioni ha per complemento le decisioni della UE in materia di approvvigionamento energetico che hanno come presupposto l’affrancamento dell’Europa dal gas russo entro il 2030.
Tecnicamente ciò implica una accelerazione nel passaggio alle rinnovabili per quanto riguarda la produzione elettrica (si attendono decisioni atte a contingentare i tempi di concessione per nuovi insediamenti eolici e fotovoltaici e ad incrementare la percentuale di suolo destinata a questi usi) che nel 2030 dovrebbe raggiungere i 2500 Twh, ma il documento della Commissione REPowerEU, prevede di incrementare sia il biometano che la produzione di idrogeno, assolutamente necessario a far funzionare determinati settori industriali (siderurgia e parte della chimica). Per l’idrogeno verde si prevede di aumentare, entro il 2030, di dieci volte l’attuale produzione europea (da 1 a 10 milioni di t/anno) e di importare altri 10 milioni di t/anno da paesi terzi (come l’Africa) attraverso enormi campi di sfruttamento dell’energia solare, un vero e proprio neocolonialismo green.
Per ottenere una produzione annua di 10 milioni di t di idrogeno verde servono 550 Twh di energia elettrica rinnovabile, cioè un quinto della produzione totale prevista che a questo punto non sarebbe più destinata alla decarbonizzazione; inoltre, considerate le perdite di conversione, variabili dal 30 al 40% a seconda dei campi di impiego dell’idrogeno (riscaldamento, trazione, produzione energia, etc) 220 Twh andrebbero persi. Quindi, per mantenere inalterati gli obiettivi di riduzione della CO2 occorre installare da qui al 2030 una potenza elettrica rinnovabile supplementare di almeno 170.000 Mwe che, oltre a rappresentare di per sé una sfida impossibile, comporta uno sviluppo senza precedenti delle reti elettriche, delle stazioni di rifasamento e di accumulo i cui costi sono difficilmente quantificabili.
Per quanto riguarda l’idrogeno infine, uno studio recente4 mette in evidenza le difficoltà della sua applicazione e distribuzione nelle infrastrutture attuali. L’idea base infatti è quella di produrre idrogeno e distribuirlo in miscelazione col gas naturale utilizzando le reti esistenti, ma diversamente da quanto finora è stato pubblicizzato, questa operazione ha grossi inconvenienti e costi conseguentemente alti.
In pratica con una percentuale di idrogeno pari al 20% di quella del gas (obiettivo della UE) occorrono interventi adattativi sia sulla rete di distribuzione (pompaggi etc) che sugli utilizzatori finali: ad esempio le turbine per la generazione, compressori e trazione a gas, sia perché la presenza di idrogeno impone l’impiego di materiali diversi (per esempio le bombole degli autoveicoli), sia perché il comportamento della miscela è influenzato dalla composizione chimica del gas naturale, che non è la stessa nei vari paesi europei. Inoltre occorre tener conto che il potere calorifico dell’idrogeno è circa un terzo di quello del gas naturale, per cui l’impiego di una miscela al 20% necessita di opportuni adattamenti degli impianti per ottenere le stesse prestazioni, mentre per quanto riguarda l’abbattimento delle emissioni non si va oltre il 6-7% del totale, dato che essendo l’idrogeno meno comprimibile del gas, a parità di volume trasportato, il flusso di energia si riduce del 13%. Tutto ciò si ripercuote sui costi di investimento e di manutenzione stimati nello studio in 11 miliardi/anno di spese supplementari con aumenti fino al 20% per gli utenti finali domestici e ancora di più per gli utenti industriali. Una bolletta energetica che non siamo in grado di pagare!
Tra guerra e crisi
L’attuale braccio di ferro con la Russia, palesemente influenzato dagli USA e dalla Nato, non si arresterà stante l’interesse strategico, quasi vitale, che gli Stati uniti ripongono in questa guerra, facendone pagare le spese alla popolazione ucraina, non meno di quanto abbia già fatto la Russia.
– Questa guerra è lo sbocco, pressoché inevitabile, della politica della NATO da 20 anni a questa parte: prova ne sia, oltre al suo allargamento verso EST, che le spese militari delle parti in causa, tra il 1999 e il 2020 sono queste (fonte SIPRI): Russia 1080 miliardi di $; Gran Bretagna 1190 miliardi di $; Paesi Nato europei 4950 miliardi di $; Stati uniti 15190 miliardi di $. In pratica tutta la NATO ha speso in armamenti 20 volte più della Russia. Perchè l’ha fatto? Quale minaccia può giustificare questa gigantesca spesa?
– Non c’è nulla di etico nelle motivazioni che l’Occidente adduce per sostenere militarmente l’Ucraina: lo testimoniano sia la formulazione di comodo delle sanzioni, sia il trattamento differenziale riservato alla Russia se paragonato a quello (non) applicato a regimi manifestamente oppressivi e crudeli (Arabia Saudita, Egitto, Turchia, etc) con cui l’Occidente fa affari.
– L’Europa e gli USA, con la scelta di non approvvigionarsi più dalla Russia quanto a materie prime e fonti di energia stanno preparando una recessione dell’economia occidentale, conseguente all’aumento generalizzato dei prezzi, anche di generi di prima necessità, che non sarà mai riassorbito e che provocherà un abbassamento del tenore di vita di centinaia di milioni di persone in tutta Europa. Le restrizioni alle importazioni russe e l’aumento del prezzo del gas e del petrolio, hanno già indotto molti stati a riprendere l’uso del carbone e a riconsiderare l’abbandono del nucleare che, oltretutto, può risultare economicamente più competitivo stante il fatto che anche le energie rinnovabili, per lo stretto legame che hanno con alcune materie prime strategiche, costeranno di più.
La popolazione ucraina non può continuare a morire per la “gloria” dell’Occidente che l’ha riempita di promesse irrealizzabili come quella di vincere la guerra e se non si vuole che le lacerazioni indotte da questo conflitto, si risolvano in una catastrofe economica per tutti, occorre gridare che gli interessi dei lavoratori europei e di tutti gli strati meno abbienti della popolazione, compresa quella ucraina, è di fare la pace e di poter disporre di tutto quanto la Russia può fornire, perché nessun altro al mondo ce lo può dare a quel prezzo e perché altrimenti i popoli europei – che non godono affatto dello stesso tenore di vita -, entrerebbero in una competizione fratricida col rischio di scannarsi come avvenne nella prima guerra mondiale.
E affinché ciò si faccia strada, ci vuole una Europa indipendente dagli USA e senza NATO.