Da qualche mese è in circolazione un prezioso libriccino intitolato Contro il fascismo nascente, curato da Luca Cangemi per Lunaria Edizioni (2022), che riporta un congruo numero di articoli redatti da Antonio Gramsci, soprattutto per L’Avanti e per L’Ordine Nuovo, attorno alla prima metà degli anni ’20 del secolo scorso. In un paese come l’Italia, in cui si assiste alla sistematica rimozione di uno dei più lucidi teorici della politica e di uno dei più importanti protagonisti della storia del movimento comunista del Novecento, qual è stato per l’appunto Gramsci, il richiamo evocato da Cangemi è già di per sé meritorio e degno di lode.
La nota di encomio è inoltre arricchita dal fatto, per nulla trascurabile, che la raccolta di scritti, corredata da pregevoli illustrazioni che accompagnano il lettore, è dedicata, nel centenario della marcia su Roma, al fascismo nascente, al suo sorgere e al suo modo peculiare di costruire in Italia un regime autoritario di massa. In un momento storico nel quale viene reiterata, impropriamente, la tesi secondo cui l’avvento del fascismo sarebbe stato favorito dalle divisioni all’interno del movimento italiano dei lavoratori e dagli imperativi, pilotati dalla Terza Internazionale, volti all’esclusione di tutte le forze non allineate, la riproposizione della riflessione gramsciana risulta quanto mai utile e fruttuosa.
La raccolta di interventi dimostra, innanzitutto, l’attenzione gramsciana per il modo del tutto nuovo e originale con cui il fascismo interpreta e affronta la crisi italiana del primo dopoguerra. Gramsci si rende conto del fatto che, attraverso il fascismo, le classi dirigenti producono il tentativo di costruire un potere unificato che sia nelle condizioni di esercitare un’egemonia stabile sulla società. Dunque, non dominio esclusivo ma capacità di mobilitazione egemonica delle masse attraverso le innumerevoli articolazioni istituzionali dello Stato e della società civile. Si trattava di uno sforzo concettuale eccezionale, considerato il fatto che, ancora fino alla metà degli anni ’20, non si disponeva di un’analisi esaustiva di un fenomeno quale quello del fascismo che, per la novità e l’imprevedibilità, lasciava i contemporanei del tutto disorientati. Anche se oggi è piuttosto agevole definire il fascismo, al tempo della marcia su Roma il tentativo eversivo mussoliniano non era di facile interpretazione. Tant’è che, di frequente, le categorie utilizzate per descriverlo rimandavano per esempio all’esperienza di organizzazioni terroristiche quali i Cento neri o alla brutalità di certe forme di oppressione di carattere medievale. Se a tutto questo si aggiunge l’intuizione gramsciana che non c’è fascismo senza politiche di aggressione violenta, militarismo e imperialismo, allora si capisce quanto profondo e complesso sia stato il tentativo, politico e teorico insieme, dell’intellettuale e dirigente comunista autore dei Quaderni.
In seconda battuta, sembra riecheggiare, in molti luoghi del libro, il tentativo gramsciano, tutto politico, di dare una risposta alla tragica domanda posta ne I Quaderni dal carcere sulle ragioni del successo del fascismo. “Perché non c’è stata difesa?” si chiede Gramsci nella lugubre e squallida cella del carcere nel quale è rinchiuso. Di fronte alla catastrofe della crisi, l’avvento del fascismo si configura come una possibile risposta, di carattere regressivo, al fatto che il potere, non più in grado di esercitare egemonia e costruire consenso, si trasforma in una terribile offensiva reazionaria. C’è solo un modo per battere il fascismo: attrezzare la classe e darle una prospettiva in termini di organizzazione, strategia, coscienza e indirizzo. Occorreva, cioè, superare il ritardo soggettivo coniugando spontaneità e direzione consapevole, mettendo il movimento dei lavoratori nelle condizioni di assolvere, attraverso l’esercizio del potere, al proprio compito storico. Di conseguenza, diventava necessario lavorare alla costruzione di una forza organizzata, il partito, che fosse in grado di unificare le lotte e di creare una relazione duratura tra i vari settori del mondo del lavoro, in primis operai del nord e contadini del sud. Il tutto in vista di una riorganizzazione dei rapporti sociali che sarebbe avvenuta tramite un rivolgimento dei rapporti di produzione. Tuttavia così non fu e, com’è noto, la sconfitta del biennio rosso spalancò le porte all’avvento del fascismo.
C’è un’ultima suggestione che, nella vasta congerie di indicazioni e riflessioni del libro, mi pare meritoria di un’ulteriore menzione. Essa è relativa al modo in cui costruire l’agire politico e, con esso, il dispositivo organizzativo. Ci sono, nella raccolta del libro, alcuni articoli che, a mio avviso, possono essere letti in modo complementare e che pongono il problema della soggettività politica e sociale e della prassi che essa avrebbe dovuto incarnare. Il problema si ripropone, nella storia del Novecento, incessantemente, e riguarda il rischio della degenerazione burocratica dei gruppi dirigenti e della loro incapacità di interloquire con le istanze, le rivendicazioni e le spinte propulsive degli oppressi e degli sfruttati.
La questione, rilevantissima, è in che modo si riescono a interpretare i bisogni e a raccogliere e concretare le volontà dei soggetti che ci si propone di rappresentare. Come costruire “un’organizzazione il cui proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquiste immediate e parziali, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre più alte”? Il rischio, dice Gramsci, qualora non si riuscisse nell’intento, è che si diventi pellegrini del nulla, precipitando in un circolo vizioso di sforzi vani, sacrifici inutili e reiterate sconfitte. L’antidoto, originale e profetico verrebbe da dire, consiste nel perseguimento ostinato di un legame simbiotico tra rivendicazioni dal basso e direzione consapevole, “un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini”.
In un articolo intitolato Capo, e pubblicato su L’Ordine Nuovo nel marzo del 1924, Gramsci intuisce e problematizza una questione che si ripropone, magari in forme diverse, altresì nella società del tempo presente. Il dirigente comunista sardo sostiene che essere rivoluzionari e marxisti significa saper scongiurare il fatto che il comando si individui e si personalizzi, che sia cioè un’incarnazione della funzione di comando. E la postura leaderistica e individualistica non è forse anche oggi uno degli ostacoli maggiori che impediscono spesso di costruire spazi pubblici, e perciò politici, di partecipazione collegiale e protagonismo diffuso? Insomma, di elaborare processi di soggettivazione politica emancipatori, orizzontali e collettivi? Gramsci coglie il fatto indubitabile che i rapporti tra organizzazione e classe non possono essere unidirezionali e gerarchici ma devono avere un carattere organico e storico, ossia devono essere, semplificando, di reciprocità, mutualità e processualità, in modo tale che agli sviluppi di una parte corrispondano gli sviluppi dell’altra, e viceversa.
Non resta altro da aggiungere, se non che l’operazione editoriale proposta da Cangemi è di estrema utilità perché offre al lettore, e non solo a quello più giovane cui è rivolto esplicitamente il libro, una ricca proposta di strumenti teorici in grado di affrontare i grandi nodi politici della contemporaneità: dalla crisi della democrazia al drammatico distacco tra la sfera del politico e la sfera del sociale, dal l’inasprirsi di quei fenomeni eversivi che corrodono lo stato di diritto alla necessità di rivitalizzare le forme della partecipazione e dell’agire politico. È, ovviamente, un’operazione militante e, al tempo stesso, di diffusione di cultura in senso alto, che si propone di offrire un’indicazione di metodo da applicare ai problemi nostri, problemi differenti forse da quelli di Gramsci, ma, come quelli del tempo di Gramsci, inediti e spesso drammatici.