“Come vincere la guerra di classe” è un libro chiaro e scorrevole di Susan George, una studiosa cosmopolita che si è specializzata nell’analisi del problema della fame nel mondo (Feltrinelli, 2013, 172 pagine, 14 euro).
Il saggio è stato sviluppato sotto forma di racconto e descrive i piani di alcuni esperti che vogliono stabilire le azioni economiche a livello mondiale. Quindi si prendono in esame numerose tematiche geopolitiche: la Conferenza sulle frontiere artiche, il recente Passaggio artico (otto giorni di traversata da Houston alla Thailandia), i cambiamenti climatici, la disuguaglianza, i rischi assicurativi.
Così possiamo scoprire che in genere i paesi con più disuguaglianze economiche sono anche i meno creativi e innovativi, o che il settore assicurativo è in grave difficoltà: “gli assicuratori e riassicuratori più importanti del mondo, come i Lloyd’s di Londra che hanno dichiarato nel 2011 perdite record dovute a enormi versamenti per danni causati da eventi climatici estremi” (il 2011 è stato il peggiore dei 325 anni di vita).
Inoltre ci sono ancora troppi governanti e troppi potenti che fanno finta di non capire l’inequivocabile “legame esistente fra spesa pubblica e sviluppo economico. Canada, Stati Uniti e i paesi dell’Europa orientale, per fare solo alcuni esempi, hanno evidentemente goduto di ricchezza materiale e successo economico notevolmente superiore nel 1995 di quanto avessero goduto, diciamo, nel 1900. È una coincidenza che nel 1900 la spesa pubblica in queste nazioni fosse inferiore al 15 per cento del Pil e sia cresciuta regolarmente raggiungendo il 40 per cento nel 1995, con la singola eccezione degli Stati Uniti al 36 per cento?” (la Svezia impiega il 67 per cento).
Del resto Warren Buffett ha scoperto che pagava molte meno tasse della sua segretaria e ha ammesso: “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo” (Buffet è la terza persona più ricca al mondo). Nel 1961 i milionari americani “versavano al governo federale il 43 per cento dei loro redditi, nel 2008 i loro pari con redditi equivalenti versavano appena il 23 per cento” (Susan George, p. 79). La globalizzazione massimizza gli utili dei pesi massimi finanziari e non c’è da essere molto ottimisti: “sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare” (Niccolò Machiavelli, Il Principe, 1513, Rizzoli, 1980, p. 156).
Però bisogna tenere presente che “il tentativo di introdurre la parola “abbastanza” nel vocabolario della classe dominante è stato storicamente parlando, una battaglia persa. L’errore strategico ricorrente è stato “troppo poco, troppo tardi” [troppi lussi, troppo illusi]”. E “Sebbene nella notte del 4 agosto 1789 gli aristocratici francesi facessero a gara a svestirsi dei privilegi, non evitarono la Rivoluzione e a molti di loro, nonostante le migliori intenzioni, costò la testa”.
In definitiva l’economia si realizza negli scambi consensuali e l’individualismo sfrenato dissolve il progresso sociale e umilia il buon senso: “Se anche i costi della manodopera fossero azzerati, a chi venderebbero i loro prodotti le aziende? Il capitalismo necessita di clienti. Gli acquirenti in Cina e in altre economie emergenti non possono compensare le masse squattrinate a casa”.
Susan George, economista, si è specializzata nello studio dei problemi legati alla fame nel Terzo Mondo. Attualmente è presidente del Transnational Institute di Amsterdam (www.tni.org) e presidente onoraria di Attac France (http://france.attac.org).
Nota su Warren Buffet (l’investitore più arguto e onesto): uno come me paga “il 17,4 per cento del reddito imponibile – molto meno di quanto paga uno qualunque dei venti collaboratori del mio ufficio, per i quali l’onere fiscale varia dal 33 al 41 per cento, con una media del 36 per cento”.
Nota su Adam Smith (l’economista più travisato) – Così, “Tutto per noi e niente per gli altri sembra sia stata, in tutte le epoche della storia, la vile massima dei padroni dell’umanità” (p. 86).
Nota su Joost Mulder (lobbista pentito) – Mulder è stato un lobbista a Bruxelles, “Ma ha cambiato bandiera e adesso lavora per Finance Watch (www.finance-watch.org), una Ong voluta dagli stessi eurodeputati “stufi di ascoltare soltanto la versione dell’industria finanziaria” (p. 134). Il coraggioso consulente olandese è reperibile tramite LinkedIn.
Nota sull’Istituto Politecnico di Zurigo – La ricerca “The Network of Global Corporate” ha dimostrato che appena 147 società, “un nocciolo impenetrabile di multinazionali… possiedono il maggiore capitale azionario e il 40 per cento della ricchezza del campione iniziale di 43.000 multinazionali prese in esame… Questi attori al vertice hanno un controllo dieci volte superiore di quanto ci si potrebbe attendere in base alla loro ricchezza”. Le prime 50 sono tutte società finanziarie, bancarie e assicurative (quasi sempre anglosassoni), tranne l’americana Walmart e la China Petrochemical Group (a cura di Stefania Vitali, James B. Glattfelder, Stefano Battiston).
Per approfondimenti cinematografici: “Inside Job” (le cause della crisi finanziaria, 2010, reperibile su http://ildocumento.it).