Nuovi movimenti, assemblee e sindacati di base stanno sorgendo in Bosnia-Erzegovina. Altri paesi post-Jugoslavia sperimentano ritorni simili della sinistra.
Che cosa sta succedendo in Bosnia-Erzegovina dieci mesi dopo la rivolta? Dopo i violenti tumulti del febbraio 2014 i cittadini della Bosnia hanno unitariamente indirizzato la loro rabbia in assemblee auto-organizzate e orizzontali chiamate plenum, che si sono diffuse come funghi in tutto il paese e sono emerse in fino a 24 città e cittadine. Sfortunatamente l’alluvione che ha colpito il paese pochi mesi dopo pare aver spazzato via i nuovi esperimenti di auto-organizzazione collettiva. Ma le proteste, i plenum e persino l’inondazione hanno contribuito ad attivare una catena di solidarietà che si è ora tradotta in una rete informale che chiede giustizia sociale.
Dove sono finiti tutti i dimostranti?
Le proteste di febbraio sono cominciate nella città di Tuzla, 130 chilometri a nord della capitale Sarajevo, dove i lavoratori licenziati di cinque fabbriche fallite hanno inscenato una protesta che riavere le loro pensioni e la loro assicurazione sanitaria non pagate. Poco dopo la protesta è esplosa in tutto il paese, nella più vasta ondata di manifestazioni che il paese abbia vissuto dalla fine della guerra. Anche se la partecipazione ai cortei si è affievolita molti mesi dopo la rivolta, i lavoratori licenziati dell’area di Tuzla non hanno smesso di dar voce alla loro rabbia. Continuano a inscenare proteste di fronte agli edifici delle istituzioni, reclamando i salari e le pensioni che i proprietari delle fabbriche ancora devono loro. A questo fine hanno fondato un sindacato indipendente chiamato Solidarnost (Solidarietà) mirato a unire i lavoratori di diverse storie professionali e superando i confini etnici.
Quanto ai partecipanti alle dimostrazioni di febbraio, molti di loro stanno tuttora fronteggiando le continue pressioni e minacce della polizia e delle autorità. Dare voce pubblica allo scontento è tuttora un compito non facile in Bosnia. Alcuni dei manifestanti sono stati arrestati e processati arbitrariamente sulla base di rapporti di polizia di dubbia accuratezza. Una lettera recente di dimostranti condannati indirizzata alle istituzioni per la promozione e la protezione dei diritti umani ha espresso preoccupazione per le sistematiche grossolane violazioni dei diritti e delle libertà dei dimostranti nel paese.
Costruendo sull’ira, la rabbia, l’eccitazione e la malinconia delle piazze vuote, i partecipanti ai plenum si sono uniti ad altri attivisti di una varietà di movimenti, assemblee , iniziative sociali e sindacati, in una rete informale per la giustizia sociale. In un comunicato diffuso recentemente il cosiddetto Movimento per la Giustizia Sociale afferma di essere composto da cittadini uniti dalle proteste di febbraio con il proposito di costruire una società basata sul primato della legge, sulla giustizia sociale e la democrazia diretta; in società in cui tutti abbiano un tetto sopra la testa; vivano del loro lavoro e in armonia con l’ambiente naturale; progrediscano secondo i propri mezzi e risorse; abbiano diritto all’assistenza sanitaria e all’istruzione gratuite e partecipino da uguali a tutti i processi decisionali della vita sociale.
La nuova rete si fonda sui principi di uguaglianza, apertura, inclusività, responsabilità e trasparenza. Opera a livello statale collegando cittadini di entrambe le entità; rifiuta la registrazione formale per evitare di farsi addomesticare dallo stesso sistema che si propone di combattere.
Contemporaneamente a livello istituzionale non ha avuto luogo alcun cambiamento. Le elezioni tenutesi a ottobre non hanno apportato alcun cambiamento al panorama politico, che resta dominato dai partiti nazionalisti. I risultati elettorali hanno profondamente deluso quelli che coltivavano speranze di un cambiamento dopo la rivolta di febbraio. Ma non hanno sorpreso quelli che promuovono una revisione della costituzione che, mentre istituzionalizza la spartizione etnica, non crea un contesto che favorisca l’ingresso dei partiti civici. Il vero vincitore delle ultime elezioni pare essere il 46 per cento della popolazione che si è rifiutato di votare e di legittimare così il sistema esistente.
Dalle piazze ai quartieri
Oltre al sindacato Solidarnost e alla rete per la giustizia sociale, entrambi risultati tangibili delle proteste, sono state organizzate altre iniziative che riflettano gli eventi di febbraio. Alla fine di novembre attivisti, intellettuali e cittadini si sono riuniti a Sarajevo per la seconda edizione dell’Università Aperta, un dialogo pubblico e interattivo di quattro giorni su temi raramente dibattuti pubblicamente in Bosnia. L’Università Aperta si è proposta come un tentativo collettivo e partecipativo di approfondire la democrazia diretta, la resistenza, le questioni di genere, il capitalismo e il debito, assieme a rappresentanti e attivisti della spazio post-jugoslavo e oltre esso.
Come hanno spiegato gli organizzatori, quando ha avuto luogo la prima Università Aperta, nel settembre 2013, nessuno si sarebbe atteso lo scoppio delle proteste di febbraio. Un anno dopo, quando i lavoratori di Tuzla privati di diritti stavano occupando l’edificio locale del governo e bloccando l’uscita della città, l’Università Aperta ha lanciato quattro giorni di intensi dibattiti nel teatro SARTR. Il SARTR, il cui acronimo sta per ‘Teatro di Guerra di Saraievo’, è un luogo di resistenza culturale fondato nel maggio del 1992, quando la città era sotto assedio, dunque un luogo altamente simbolico. Nel corso dei quattro anni di assedio ha ospitato più di 2.000 esibizioni, aiutando la gente sotto assedio ad affrontare la follia e il surrealismo della guerra. Analogamente nel novembre 2014 l’ha aiutata ad affrontare la frustrazione seguita alle proteste.
“L’Università Aperta è stato un momento anti-egemonico ed è magnifico che abbia avuto luogo a Sarajevo”, ha affermato uno degli organizzatori. Ha offerto l’occasione di affrontare le domande sul “dopo” e su che cosa fare quando le piazze sono vuote. Dopo le proteste, la frustrazione appare essere il sentimento dominante. Come affrontare la malinconia delle piazze vuote? Costas Douzinas, autore di diversi libri sui diritti umani, ha incitato a trasferire lo spirito delle piazze nei quartieri, cominciando con l’organizzazione di alternative sociali ed economiche. “Sciogliete le piazze e ricostruitele nel quartiere”, ha detto Douzinas. “Lo spirito va dove può operare un cambiamento”.
Ma diversamente dalla Grecia “dove le piazze si sono sciolte e si sono ricostruite nei quartieri”, per usare le parole di Douzinas, nulla di simile è ancora accaduto in Bosnia. E non si può fare alcun confronto con altre esperienze, come le piazze greche o le comunità zapatiste. Esistono fratture differenti in una società post-bellica traumatizzata che si sta risvegliando dopo vent’anni di oppressione.
Anche se alcuni sostengono che i plenum hanno deradicalizzato le proteste, allontanandone dalla classe operaia e dirigendole ad assemblee dirette da intellettuali, sembra che la pratica della democrazia diretta abbia un effetto politicizzante, piuttosto che soltanto terapeutico. Come ha detto un partecipante all’ultima Università Aperta “nel corso dei plenum non abbiamo provato consapevolezza, abbiamo provato euforia”. Comunque un tale sentimento di eccitazione può fondare le basi per plasmare una collettività consapevole i cui membri non siano più legati da affinità nazionali bensì piuttosto dalla volontà condivisa di riprendere il potere nelle proprie mani. Le proteste e i plenum hanno aperto uno spazio in cui la gente parli ed esprima la rabbia accumulata in vent’anni di privazione di potere e di sfruttamento. Oggi è giunta l’ora di rendersi conto di essere parte della stessa massa di oppressi, indipendentemente dalle appartenenze nazionali.
Ricostruzione della sinistra nello spazio ex-jugoslavo
Oltre la Bosnia, alternative di base e partitiche stanno spuntando come funghi nello spazio post-jugoslavo. In Serbia, alla fine di novembre, un gruppo di studenti di cinematografia ha riaperto, ripulito e occupato la sala cinematografica “Zvezda” a Belgrado, un cinema prestigioso chiuso dal 2007 dopo un tentativo di privatizzazione non riuscito. Gli studenti si sono uniti all’insegna dell’iniziativa “Movimento per l’occupazione del cinema” e hanno organizzato proiezioni gratuite e dibattiti pubblici nello spazio riappropriato.
In uno spirito simile l’iniziativa civica “Non avvilite Belgrado” si oppone in modo attivo e creativo al progetto “Belgrado sull’acqua”, un piano urbanistico mirato a trasformare un’area in disuso in prossimità del fiume Sava nel maggior centro commerciale della regione, senza aver consultato o informato i cittadini. Entrambe le iniziative sottolineano la crescente necessità di spazi comuni e gratuiti e che la gente abbia voce in capitolo nelle questioni che la riguardano.
In Croazia è emerso il Fronte dei Lavoratori come iniziativa politica di lavoratori, sindacalisti, disoccupati e studenti con il proposito di convergere in un partito politico che combatta per i diritti dei lavoratori e degli oppressi. Il Fronte dei Lavoratori, fondato quest’anno, ha manifestato l’intenzione di concorrere alle elezioni parlamentari in Croazia, come hanno fatto i suoi pari in Slovenia. Analogamente, è stata fondata quest’anno in Slovenia l’Iniziativa per il Socialismo Democratico e ha concorso alle elezioni sia parlamentari sia europee nella lista Sinistra Unita. La lista è riuscita a conquistare il 5,5% delle preferenze, ma nessun seggio, alle elezioni europee, mentre a livello nazionale ha raggiunto il 6% e ha ottenuto l’accesso al parlamento; è stata la prima volta che un partito di sinistra è entrato in parlamento dopo la fine della Jugoslavia.
Nel momento in cui scrivo in Macedonia gli studenti stanno bloccando le strade di Skopje contro il piano del governo di tenere esami di laurea esterni, sotto supervisione statale, il che, secondo gli studenti, pone una minaccia all’autonomia universitaria e limita il diritto all’istruzione.
E’ la prima volta che simili massicce proteste, iniziative civiche e partiti di sinistra fioriscono tutti insieme nel territorio dell’ex Jugoslavia. Le proteste bosniache, nel loro particolare aspetto di articolazione di rivendicazioni concrete attraverso i plenum, hanno sfidato ogni aspettativa e teoria accademica affermanti l’improbabilità di una rivolta in una società post-bellica deprivata e divisa. Non solo il popolo si è mobilitato, ma ha anche cominciato a creare un’alternativa.
E’ arduo predire se la rete bosniaca per la giustizia sociale si svilupperà in un movimento sociale a tutto campo o se preparerà il terreno per la formazione di un partito politico, come avvenuto in Slovenia e in Spagna. Al presente una nuova potente moltitudine pare essere emersa nella regione, attingendo sia all’esperienza jugoslava sia al movimento della democrazia reale e sta marciando in direzione di una specie di YUtopia collettiva emancipatrice.
Di Chiara Milan, dottore di ricerca sulla società civile e i movimenti sociali nell’Europa sud-orientale presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze e redattrice presso l’East Journal.
Traduzione per Z-net Italy di Giuseppe Volpe