Il discorso che Malala Yousafzai, premio Nobel per la Pace 2014, ha tenuto in occasione della consegna del Premio (10 dicembre 2014, Oslo).
Sono molto orgogliosa di essere la prima pasthun, la prima pachistana e la prima giovane a ricevere il Nobel per la pace. Sono onorata di condividere questo premio con Kailash Satyarti e felice di dimostrare al mondo che un indiano e una pachistana possono essere uniti nella pace e lavorare insieme per i diritti dei bambini.
Questo premio non è solo per me: è per tutti quei bambini dimenticati che desiderano un’istruzione.
È per quei bambini spaventati che vogliono la pace.
È per quei bambini senza voce che vogliono un cambiamento.
Sono qui per far valere i loro diritti, far sentire la loro voce…
Non è il momento di compatirli. È il momento di darsi da fare affinché questa sia l’ultima volta che vediamo negata l’istruzione a un bambino.
L’istruzione è uno dei beni della vita, e una necessità. È quanto ho imparato nei miei 17 anni di vita.
A casa, nella valle di Swat, nel Pakistan settentrionale, mi è sempre piaciuto andare a scuola. Nelle occasioni speciali le mie amiche e io ci decoravamo le mani con l’henné e invece di disegnare fiori o altri motivi, riproducevamo sulle nostre mani formule ed equazioni matematiche.
Eravamo assetate di istruzione perché il nostro futuro era lì, in quell’aula. Ci sedevamo e leggevamo e imparavamo insieme. Ci piaceva indossare le uniformi scolastiche pulite e ordinate e ce ne stavamo sedute lì con gli occhi pieni di sogni.
Le cose sono cambiate. Quando avevo 10 anni Swat si è trasformata da località turistica a luogo di terrorismo. Più di 400 scuole sono state distrutte. Alle ragazze è stato impedito di andare a scuola. Le donne frustate e gli innocenti uccisi.
L’istruzione è passata dall’essere un diritto a essere un reato.
Avevo due scelte: restare in silenzio e aspettare di essere uccisa o parlare e essere uccisa. Ho scelto la seconda. Ho deciso di farmi sentire.
I terroristi hanno provato a fermarci e il 9 ottobre del 2012 hanno attaccato me e le mie amiche, ma i loro proiettili non potevano avere la meglio. Siamo sopravvissute. E da quel giorno la nostra voce è ancora più forte.
Racconto la mia storia non perché sia unica, ma perché non lo è. È la storia di molte ragazze. Oggi racconto anche le loro storie.
Qui a Oslo ho portato con me alcune delle mie sorelle del Pakistan, della Nigeria e della Siria che condividono la mia stessa storia. Sono le mie coraggiose sorelle Shazia e Kainat Riaz, anch’esse colpite insieme a me a Swat; la mia coraggiosa sorella Mezon, di 16 anni, siriana, che oggi vive in un campo rifugiati della Giordania e va di tenda in tenda ad aiutare le ragazze e i ragazzi ad imparare. E la mia sorella Amina, della Nigeria, dove Boko Haram minaccia e rapisce le ragazze semplicemente perché vanno a scuola.
Benché io sia solo una, non sono un voce sola: sono la voce di molte.
Sono Shazia. Sono Kainat Riaz. Sono Kainat Somro. Sono Mezon. Sono Amina.
Sono quelle 66 milioni di ragazze che non possono andare a scuola.
La gente mi chiede perché l’istruzione è importante, soprattutto per le ragazze. La mia risposta è sempre la stessa. Come ho detto all’Onu: «Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo».
Porterò avanti la mia lotta sino a quando non vedrò ciascun bambino andare a scuola.
Care sorelle e cari fratelli, decidiamo di essere la prima generazione che sceglie di essere l’ultima.
Facciamo sì che le aule vuote, le infanzie perdute, il potenziale sprecato finiscano con noi.
Che sia l’ultima volta che un ragazzo o una ragazza trascorre l’infanzia in una fabbrica.
Che sia l’ultima volta che una bambina è costretta a sposarsi.
Che sia l’ultima volta che un bimbo innocente perde la vita in guerra.
Che sia l’ultima volta che un’aula rimane vuota.
Che sia l’ultima volta che una ragazza si sente dire che l’educazione è un reato e non un diritto.
Che sia l’ultima volta che a un bambino viene impedito di andare a scuola.
Cominciamo a farla finita.
Facciamo sì che tutto ciò finisca con noi.
Costruiamo un futuro migliore proprio qui, proprio adesso.
Tratto, con il suo accordo, dal blog di Mauro Presini