Il giorno dopo il massacro di 132 studenti e di nove tra docenti e personale di sicurezza, in una scuola amministrata dai militari nella grande città settentrionale di Peshawar, in Pakistan è il giorno della reazione e delle polemiche. Mentre il paese reagisce con tre giorni di lutto nazionale e veglie di preghiera e riceve attestati di solidarietà e di impegno comune contro il terrorismo da molti paesi, emergono altri particolari raccapriccianti sull’azione del commando talebano. Come quella che la maggior parte degli uccisi, quasi tutti studenti sotto i 16 anni sono stati colpiti al capo, a bruciapelo. Il portavoce militare, generale Asim Bajwa, ha anche segnalato i 125 studenti feriti. Complessivamente una carneficina peggiore di quella che accompagnò con 139 morti l’assassinio dell’ex premier Benazir Bhutto il 27 dicembre 2007 nella metropoli di Karachi.
La Conferenza multipartitica in corso a Peshawar presieduta dal primo ministro Nawaz Sharif riunisce non solo parti politiche, ma anche i vertici delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Come primo passo, è stata sospesa la moratoria sull’applicazione della pena capitale, un provvedimento pienamente sostenuto dai generali che entrerà in vigore dalla mezzanotte di domani.
Crescono anche le accuse verso i responsabili della sicurezza, verso il governo locale e verso quello centrale, accusati di avere usato finora verso i Talebani un atteggiamento duro a parole ma tollerante nei fatti. Sono state finora un migliaio le scuole attaccate dal 2009, oltre 30.000 le vittime, soprattutto civili, delle campagne di terrore, dal 2007. Rifugi, connivenze, coperture e fonti di finanziamento e di armi sono conosciuti, soprattutto dai servizi segreti che hanno utilizzato le varie fazioni talebane per cercare di rendere il confinante Afghanistan un protettorato pachistano e mantenere nell’instabilità politica il loro paese. Nessuno ignora che la sconfitta dei Talebani pachistani e il recupero al controllo governativo delle aree tribali di confine toglierebbero l’indispensabile retroterra ai militanti attivi in Afghanistan con il rischio però – per i fondamentalisti religiosi e i loro simpatizzanti a Islamabad – di avere un vicino filo-occidentale aperto a una ancor più forte cooperazione con l’India. Un conflitto, quello in corso, che si è avvalso quindi non solo delle capacità militari e della mancanza di scrupoli dei militanti, ma anche di opportunità incrociate che il paese ha pagato duramente. Per questo, il massacro della scuola di Warsak Road potrebbe essere uno spartiacque.
Nel primo dei tre giorni di lutto nazionale, la popolazione piange e manifesta, tiene veglie di preghiera e si ritrova in un paese unito da rabbia e dolore. Scopre, attonita, che il suo nemico non è esterno, come per i confinanti Afghanistan e India, ma interno. Bandiere a mezz’asta sulle sedi pubbliche all’interno e sulle rappresentanze diplomatiche all’estero.
Ampia la solidarietà dalla comunità internazionale, ma ancor più significativa quella della vicina e rivale India, il cui premier Narendra Modi ha telefonato nella notte, come pure ha fatto il presidente Usa Obama, al collega pachistano Sharif. Alle 10.30 pachistane, ora in cui ieri era iniziato l’attacco, l’India si è fermata per due minuti e Modi si è unito a un gruppo di parlamentari per una preghiera.