Lo studio “Nuove stime della ricchezza regalata alle grandi compagnie private di estrazione del rame: Cile 2005-2015”, ha affrontato la rendita economica ottenuta dalle 10 maggiori compagnie minerarie in Cile. Utilizzando i dati ufficiali della Banca Mondiale per il periodo 2005-2014 e applicando una metodologia moderna, è stato stimato che queste compagnie hanno ottenuto un guadagno di 120 miliardi di dollari. Le 10 grandi compagnie minerarie multinazionali considerate in questo studio erano: Anglo American Sur, Mantos Copper, Los Pelambres, Candelaria, Quebrada Blanca, Escondida, Collahuasi, Cerro Colorado, Zaldívar e El Abra.
Secondo l’economista Julián Alcayaga (2020) alla fine della dittatura, nel 1989, c’erano solo tre grandi compagnie minerarie multinazionali, “La Disputada” (appartenuta allo Stato fino al 1979), “Mantos Blancos S.A.” e “Minera El Indio”, che producevano un totale di 214.000 tonnellate. Il resto era prodotto da compagnie statali, Codelco e Enami, del totale di 1.609.000 tonnellate prodotte dal Cile in quell’anno. In altre parole, solo il 13% del rame cileno veniva prodotto da imprese straniere. Oggi, nel 2019, le aziende estere producono il 70% del rame cileno. Ciò significa che in questi 30 anni gli investimenti stranieri sono stati molto elevati.
Secondo gli annuari di Cochilco (Ente Cileno del Rame), le compagnie minerarie straniere hanno portato via dal Cile, tra il 1990 e il 2019, ben 85.818 tonnellate di rame fino, che al prezzo medio degli ultimi mesi (3 dollari per libbra) equivalgono a 567.760 milioni di dollari. Questa è l’esportazione dichiarata dalle stesse compagnie, ma è di dominio pubblico che la quantità reale è almeno dal 20 al 25% più alta della cifra ufficiale. Questo significherebbe che l’esportazione di rame da parte di queste compagnie raggiunge le 100.000 tonnellate e il valore di 680.000 milioni di dollari, a cui si dovrebbe aggiungere il 30% in più per oro, argento, molibdeno, renio, cobalto, ecc, contenuto nel concentrato di rame. Vuol dire che le compagnie minerarie straniere hanno portato via circa 900 miliardi di dollari dal nostro paese. Questa è la dimensione della straordinaria ricchezza che il rame cileno rappresenta. Tuttavia, si tratta di un disastro per il nostro paese che deriva direttamente dai governi degli ultimi 30 anni, che hanno consapevolmente permesso questa appropriazione indebita.
Dei 900 miliardi di dollari che le compagnie minerarie straniere hanno incassato, quanto hanno pagato in tasse allo Stato e a tutti i cileni? È difficile saperlo perché in Cile la tassazione è segreta dal 1995, proprio per evitare che i cileni scoprano che le imprese straniere in generale, e quelle minerarie in particolare, pagano poche o nessuna imposta sul reddito. Tuttavia, la tassazione delle compagnie minerarie straniere è diventata nota grazie a un rapporto del S.I.I. (Servizio Interno delle Imposte) richiesto dal Senato nel 2003 e a un rapporto richiesto sempre al S.I.I. dalla deputata Claudia Mix. I rapporti indicano che dal 1990 al 2019 la tassazione del reddito più la tassa specifica sull’estrazione mineraria conosciuta come royalty, è stata di 29.030 milioni di dollari.
Questo significa che hanno portato via dal Cile 900 miliardi di dollari e hanno lasciato nel paese solo 29 miliardi di dollari in 30 anni di sfruttamento, cioè un minuscolo 3,2% di una ricchezza che è già scomparsa per sempre dal nostro suolo.
Perché le compagnie minerarie straniere hanno potuto estrarre così tanto rame e altri sottoprodotti pagando così poche tasse? Qui entra in gioco il disastro permesso dai nostri governanti dal 1990 in poi. Fino al 1989, le compagnie minerarie straniere dovevano pagare le tasse sulla base del reddito presunto, cioè su ciò che vendevano. Nessuna società mineraria poteva sfuggire alle imposte sul reddito, perché non appena doveva vendere o esportare la prima tonnellata di rame, sia che realizzasse un profitto o meno, aveva un reddito e doveva pagare l’imposta. Tutto è cambiato nel 1990, quando è stata approvata la legge 18.985, che ha cambiato l’imposta per le grandi compagnie minerarie da reddito presuntivo a reddito effettivo: cioè, se le compagnie minerarie ottengono o dichiarano profitti, pagano l’imposta sul reddito, ma se dichiarano perdite non la pagano. Di fatto, accumulando perdite, non pagheranno l’imposta finché gli eventuali profitti futuri assorbiranno tutte le perdite accumulate. Le compagnie minerarie straniere sono venute in massa nel nostro paese, perché questa legge ha permesso loro di prendere il rame e i sottoprodotti che volevano senza pagare tasse. Più tardi, il governo di Eduardo Frei Ruiz-Tagle ha approvato la legge 19.389, stabilendo la segretezza delle informazioni fiscali delle imprese. Allo stesso modo, il governo di Ricardo Lagos, con l’approvazione della legge 19.738, ha aumentato i benefici fiscali per le imprese multinazionali del rame, perché ha permesso loro, contrariamente a come dovrebbe essere, di ottenere un risarcimento per la perdita di valore subita dal giacimento quando viene sfruttato. Dovrebbero essere invece il paese e il suo popolo a ricevere un risarcimento per l’arricchimento del settore privato a spese di una risorsa naturale non rinnovabile che si sta estinguendo.
Tutto inizia con il fatto che gli investimenti delle case madri in Cile non avvengono in maniera diretta, ma è la loro filiale mineraria “cilena” che si indebita con società finanziarie legate a quella madre e domiciliate in paradisi fiscali o tributari. Le società minerarie “cilene” pagano a queste società finanziarie interessi e commissioni molto al di sopra del normale mercato. In alcune imprese minerarie, le spese finanziarie hanno raggiunto il 40% delle spese totali, e in questo modo diminuiscono o fanno sparire i profitti in Cile.
Un’altra forma di evasione è il transfer pricing, sia in quello che comprano che in quello che vendono a società collegate. Per esempio, gli enormi camion da miniera, del valore di circa 5 milioni di dollari, non vengono acquistati dal fabbricante ma da una società commerciale collegata, domiciliata in un paradiso fiscale, alla quale pagano 7 o 8 milioni di dollari, il che aumenta le spese della società mineraria “cilena”, riducendo i profitti per non pagare tasse. Esportano il concentrato a una società collegata, via nave e assicurato da un’altra società collegata. I costi di fusione e raffinazione sono molto alti, così che le vendite risultano più basse di quanto dovrebbero essere ai prezzi di mercato. I profitti di questi sovrapprezzi sono percepiti da società estere collegate allo stesso gruppo e le maggiori spese per la società mineraria “cilena” servono a diminuire o far sparire i profitti, in modo da non pagare l’imposta sul reddito in Cile.
Ci sono molti altri modi ancora più illeciti di generare artificialmente delle spese, come le vendite nei mercati a termine a società collegate che guadagnano ciò che la società mineraria “cilena” perde. Riducono la quantità e il contenuto di metallo del rame e di altri sottoprodotti che vanno nel concentrato, con la scusa che le dogane, Cochilco o la S.I.I. non controllano le esportazioni di rame. Perché questi organismi non controllano le compagnie minerarie straniere, se questo è il loro ruolo? Perché i direttori e i funzionari di questi enti non possono supervisionare le compagnie minerarie straniere, ma ricevono ordini diretti dalle autorità governative? Per questo parliamo del disastro che i governi cileni hanno causato al rame e all’industria mineraria in generale.
Oltre alle royalties fiscali, il modello di produzione del rame che dal 1990 ha dato impulso all’esportazione del concentrato di rame (classificato come materia prima o sottoprodotto), implica perdite significative per il paese. Il Cile è diventato il primo esportatore mondiale di concentrato di rame, che rappresenta un terzo delle esportazioni di materie prime di questo paese.
L’esportazione del concentrato di rame comporta perdite enormi, poiché il prezzo di acquisto e di vendita non è definito dalle borse dei metalli, ma è soggetto all’arbitrarietà dei partecipanti alla transazione, che sono generalmente partner imparentati. Inoltre, chi esporta o vende il concentrato di rame è legato a contratti obbligatori di 20 anni, dovendo pagare il costo del trasporto via nave fino alle fonderie e raffinerie in Asia o in Europa e l’assicurazione necessaria. A questo si aggiunge una perdita del 4% del rame contenuto nel concentrato, poiché le fonderie pagano solo il 96% del rame che comprano. Nel caso di Codelco, si tratta di perdite dirette e significative per il paese che si potrebbero evitare raffinando e fondendo il concentrato nel paese.
Il Cile perde inoltre entrate a causa delle cosiddette impurità, cioè dei sottoprodotti contenuti nel concentrato di rame (stimati in più di 30 metalli e non metalli). Le multinazionali pagano un importo approssimativo per l’oro e l’argento, mentre per il resto del contenuto, che è considerato insignificante e senza valore dalle imprese (con il benestare degli organi di controllo) non pagano nulla. L’accademico Juan Camus dell’Universidad de Playa Ancha ha stimato nel 2012 che il Cile ha perso più di 9 milioni di dollari per ogni 1.000 tonnellate di concentrato di rame esportato, un importo che è ancora maggiore se si considera che ogni anno tra 11 e 12 milioni di tonnellate di concentrato di rame sono inviate all’estero.
In breve, il danno per il Cile esportando il concentrato e non raffinando o fondendo il rame nel paese raggiunge dimensioni gigantesche, con cifre che sono molto difficili da quantificare e tradurre in realtà. Per l’ultimo decennio (dal 2000 al 2010), il danno è stimato in 120 miliardi di dollari, secondo la Facoltà di Economia dell’Università del Cile; 190 miliardi di dollari, secondo la Banca Mondiale, e quasi 300 miliardi di dollari, secondo il Comitato di Difesa del Rame.
Tuttavia, la nazionalizzazione è un percorso possibile, soprattutto in Cile, dove l’attuale Costituzione politica mantiene la decisione di sfruttare le risorse naturali a beneficio del popolo cileno.
E la nazionalizzazione è possibile oggi, come dimostra la decisione presa dal governo boliviano nel 2006 di togliere gli idrocarburi dalle mani delle multinazionali, ottenendo così un significativo beneficio di sviluppo per il suo popolo. Inoltre, nel 2013, a seguito di intense mobilitazioni sociali, è stato adottato e messo in pratica il principio che il gas è destinato prima ai boliviani e poi all’esportazione.
Dal 2006 al 2019, grazie alla decisione di nazionalizzare gas e petrolio, il popolo boliviano ha ottenuto 37.484 milioni di dollari di entrate petrolifere che vanno, tra gli altri, a favore di progetti nei settori della salute, educazione, alloggio, occupazione e produzione alimentare. Questa ricchezza recuperata finanzia anche una gran parte delle obbligazioni sociali e del reddito a beneficio dei bambini e dei giovani, delle ragazze madri e degli anziani.
Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid.
Revisione di Anna Polo