Esiste un diritto alla pace? È un’obiezione che spesso viene posta, quando ci si sofferma sulla tragedia della guerra, sullo sconvolgente volume di distruzione e disperazione che determina, su ciò che sarebbe opportuno e necessario fare per impedirla, impedire la guerra e agire efficacemente per la pace. Ma è anche un’obiezione più che mai pertinente e attuale in un tempo, la nostra attualità, nel quale sempre più gravi diventano le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale e sempre più a repentaglio appaiono diritti e tutele che pure si sarebbe portati a ritenere assicurati, garantiti. Il tema della pace è, cioè, più urgente e decisivo che mai. Non solo in relazione alla quantità di guerre che ancora si svolgono ai quattro angoli del pianeta, alle conseguenze disastrose dei conflitti armati in termini di diritti, sicurezza umana e sociale, possibilità di una vita sicura e dignitosa per i popoli e le comunità, e al volume degli affari legati al complesso militare-industriale e alla produzione e vendita di armamenti sempre più sofisticati e letali. Ma anche in relazione alla possibilità di traguardare un diverso ordine delle cose, di delineare un itinerario – nella «pace con giustizia» – di inclusione e di prosperità per i popoli, in definitiva, di assicurare le migliori condizioni possibili affinché le opportunità di vita e di benessere possano essere estese al numero più ampio possibile di persone, a tutte le latitudini, e tutti i diritti umani, in tutte le loro generazioni, possano essere garantiti, a tutti e a tutte, in tutto il mondo.
Sono i dati del SIPRI, tra gli altri, a confermare l’emergenza di queste preoccupazioni. Sono almeno 39 gli Stati nei quali sono stati registrati conflitti attivi nel 2020; almeno 120 mila sono le vittime, sempre nel 2020, direttamente ascrivibili ai conflitti armati; sempre più gravi diventano le conseguenze associate alla violenza dei conflitti, in particolare in termini di fuga delle persone dalle proprie case e dai propri beni, insicurezza alimentare, gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, vale a dire l’insieme dei diritti e delle norme che, in tempo di conflitto armato, proteggono le persone che non prendono – o non prendono più – parte alle ostilità e pongono limiti all’impiego di mezzi e metodi di guerra. Una dinamica internazionale di conflitto e di violenza armata che, peraltro, al di là di certa retorica intesa a celebrare i «75 anni di pace in Europa», riguarda direttamente anche l’Europa: sia se guardiamo alla storia recente, al passato prossimo, del nostro continente, ad esempio in riferimento ai conflitti nei Balcani Occidentali, sia se guardiamo al nostro presente, con la guerra tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh e il conflitto armato c.d. “a bassa intensità”, ma non per questo meno significativo, in Ucraina, oltre che ai diversi casi di conflitto congelato o di situazioni irrisolte di conflittualità, dal Kosovo a Cipro. Quanto al volume del business della guerra, sono ancora i recenti dati del SIPRI a fare luce su questa ulteriore emergenza nell’emergenza: «si stima che nel 2020 la spesa militare mondiale abbia raggiunto i 1.981 miliardi di dollari, … più alta del 2.6% rispetto al 2019 e del 9.3% rispetto al 2011. L’onere militare globale – la spesa militare globale come quota del PIL globale – è cresciuto di 0.2 punti percentuali nel 2020, raggiungendo il 2.4%…, l’aumento più consistente dalla crisi … del 2009».
Come indicano i dati del MILEX, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, l’Italia è un attore di primo piano, sia sul versante della guerra e della militarizzazione, sia sul versante della produzione e del commercio di armamenti; al MILEX si deve, tra l’altro, la «valutazione tendenziale della spesa militare complessiva “diretta” per il 2022 di ca. 25.8 miliardi di euro (che diventano 26.5 miliardi con ulteriori costi indiretti). Ciò significa un aumento di 849 milioni rispetto alle medesime valutazioni effettuate sul 2021 con una crescita del 3.4% rispetto all’anno precedente e addirittura dell’11.7% sul 2020 e del 19.6% sul 2019». Torna allora l’urgenza della domanda iniziale: esiste un diritto alla pace? Proprio il 19 dicembre, esattamente il 19 dicembre 2016, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottava la Risoluzione 71/189 con l’importante «Dichiarazione sul Diritto alla Pace». I presupposti di tale diritto sono evidenziati in risoluzione, dove si legge che «la promozione della pace» è un «requisito vitale per il pieno soddisfacimento di tutti i diritti umani per tutti» e, al tempo stesso, che «il pieno sviluppo di una cultura della pace è integralmente connesso alla realizzazione del diritto di tutti i popoli … all’autodeterminazione», insieme con la salvaguardia dei principi fondamentali della giustizia internazionale, che pure il testo richiama, la risoluzione pacifica delle controversie, la non ingerenza negli affari interni, il rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ciascuno Stato. Una risoluzione, sotto il profilo etico e politico, di grande spessore, fatta di appena cinque articoli. In base all’art. 1, «ognuno ha il diritto di godere della pace in modo tale che tutti i diritti umani siano promossi e protetti e lo sviluppo sia pienamente realizzato»; in base all’art. 2, «gli Stati sono tenuti a rispettare, attuare e promuovere uguaglianza e non-discriminazione, giustizia e stato di diritto, e garantire la libertà dalla paura e dal bisogno come mezzo per costruire la pace dentro e tra le società»; e ancora, in base all’art. 4, «vanno promosse istituzioni nazionali e internazionali di educazione alla pace al fine di rafforzare in tutti gli esseri umani lo spirito di tolleranza, dialogo, cooperazione e solidarietà. A tal fine, l’Università per la Pace dovrebbe contribuire al grande compito universale di educare alla pace impegnandosi nell’insegnamento, nella ricerca… e nella diffusione della conoscenza».