Era il 2011. Berlusconi era preoccupato, ma non telefonò a Gheddafi, perché “non voleva disturbare nessuno”. Le opposizioni di allora erano invece scandalizzate per il silenzio del governo sulle vicende libiche. Veltroni riteneva inaccettabile il silenzio sugli ormai “quasi cento morti”. In Parlamento c’erano ancora Fini e Di Pietro. Anche i loro partiti, insieme all’UDC, chiedevano una netta presa di posizione contro il dittatore di Tripoli. Camusso e Rossanda sostennero questa linea di indignazione.
Le Primavere Arabe facevano sognare il pubblico televisivo occidentale, cavalcando l’attivismo militante praticato su Facebook e Twitter. In fondo Gheddafi in Italia era visto da tutti come “amico di Berlusconi”, così la realtà della Libia poco contava. Il dittatore doveva morire e la democrazia trionfare.
Sono passati ormai alcuni anni dai bombardamenti fortemente richiesti dalla Francia e sostenuti dal premio Nobel della pace Obama. Nel paese infuria una guerra civile di cui si parla raramente, ma che ha convinto tutti i paesi occidentali a chiudere le loro ambasciate. Solo quella italiana è rimasta aperta, nonostante l’allora Ministro degli Esteri Mogherini si vantasse di aver convinto i britannici a non lasciarci isolati.
Il sistema mediatico era pronto ad ignorare che la nuova costituzione libica si fondasse sul Corano e peggiorasse considerevolmente le condizioni di vita delle donne. Però una guerra civile la si ignora con maggiori difficoltà. Soprattutto se sei l’Italia, un paese che, attraverso il tema dell’immigrazione, si ricorda costantemente che esistono altre sponde del Mediterraneo.
Finisce quindi che il Sole 24 Ore rappresenti uno dei giornali più interessati a denunciare il caos di quella zona geografica, contestando con frequenza le politiche nell’area di Stati Uniti e Unione Europea. La notizia riportata in questi giorni è che le elezioni libiche del 25 giugno sono state annullate dalla Corte Suprema di quel paese, mettendo in ulteriore difficoltà il governo (in esilio) riconosciuto dalla comunità internazionale.
Non è che la Confidustria trovi simpatico il mondo arabo e per questo dia spazio a quello che avviene in Medio Oriente. Si tratta di una banale considerazione sugli interessi economici dell’Italia, che confliggono con quelli francesi.
«La guerra civile libica mette con le spalle al muro la comunità internazionale e l’Italia che deve decidere tra la legittimità del governo di Tobruk, in esilio in Cirenaica, e la protezione dei suoi interessi economici ed energetici, situati con i terminali dell’Eni e il gasdotto in Tripolitania. […] Questo è un momento favorevole per cogliere alcune opportunità – ristabilire l’influenza italiana in almeno una parte della Libia – ma è pure una situazione carica di rischi. Qualunque presa di posizione che appoggi Tobruk danneggia la nostra presenza in Tripolitania. Se però ci sbilanciamo troppo su Tripoli rischiamo di perdere la copertura internazionale». (Alberto Negri, Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2014)
Mentre l’Isis ha ricordato all’occidente la missione compiuta in Iraq, in Libia è sorto un altro Califfato. Non ci sono solo due fazioni in campo, ma numerose milizie che continuano a dividersi le armi di cui si sono appropriate dopo il caos che ha seguito la caduta di Gheddafi.
L’Italia per proprio tornaconto dovrebbe ritrovarsi sul fronte dei pacifisti che si oppongono agli interventi militari Nato. Neanche il movimento pacifista riesce però a prendere forza da questa situazione. Anzi, ricordiamo che Marinella Correggia, che in passato ci ha concesso la collaborazione anche con il nostro quotidiano, è stata accusata di essere “punta di lancia del governo di Assad” perché continuamente attiva sul fronte della pace. Sono poche le voci come quelle di Sibiliria.org, prevale una sorta di distaccata indignazione per il pericolo nero dei califfati.
Non conta il numero dei morti che le guerre portano in paesi non lontani da noi. Contano le emozioni che ci trasmettono i telegiornali e le fotografie sui social network. Se serve a contestare Berlusconi o cavalcare elettoralmente la questione dell’immigrazione, allora la politica italiana parla di Libia. Se questo viene meno, resta tutto in mano a Confindustria e all’imbarazzante politica estera degli ultimi governi.
Di Dmitrij Palagi per Il Becco