Dal 2008 Gaza è stata il teatro di tre guerre terribili. Il severo blocco israeliano sui materiali in entrata e in uscita da Gaza ha comportato, sotto ogni aspetto, che la ricostruzione sia lenta. Dopo la guerra del 2008 è trapelato un rapporto ONU nel quale si avvertiva che quel territorio stava subendo un processo di “contro-sviluppo” a causa di ritardi e restrizioni su materiali da costruzione come calcestruzzo, rinforzi di acciaio e mattoni. Israele sostiene che queste materie prime potrebbero essere dirottate da Hamas per costruire bunker e tunnel per infiltrarsi a Israele (lo scopo israeliano nella guerra appena conclusa era proprio di distruggere questa rete di tunnel).
La situazione dopo l’ultima guerra, durata 50 giorni, questo anno, non è diversa. Ha causato più di 2000 morti palestinesi e la distruzione di un gran numero di proprietà. Interi quartieri sono stati rasi al suolo e un terzo degli abitanti sono stati ridotti alla condizione di rifugiati. Secondo una rilevazione dell’ONU, più di 100.000 abitazioni sono state danneggiate o distrutte. C’è stato anche un grande danno alle infrastrutture; molte persone non possono ancora collegarsi all’acquedotto municipale, mentre black-out elettrici che durano anche fino a 18 ore al giorno sono la norma. Secondo stime palestinesi Gaza necessiterebbe di almeno 5 miliardi di sterline (circa 8 miliardi di dollari) per essere ricostruita.
A settembre sembrava che fossero stati fatti alcuni progressi. L’inviato dell’ONU Robert Serry aveva annunciato un piano per introdurre sotto la supervisione dell’ONU, invece che mediante Hamas, i materiali di cui c’è un disperato bisogno per la ricostruzione di Gaza. Il governo palestinese ha recentemente iniziato a distribuire limitate quantità di materiali da costruzione nella Striscia di Gaza, in linea con l’accordo mediato dall’ONU.
Ma questo non è tutto. Questa settimana un portavoce della Camera di commercio di Gaza ha detto che il sistema dell’ONU causerebbe ritardi inaccettabili nella ricostruzione, già in sé impegnativa. “Se il piano di monitoraggio dell’ONU verrà attuato, ci vorranno 20 anni per ricostruire la Striscia di Gaza”, ha dichiarato Maher al-Tabba’. “Per ricostruire la Striscia di Gaza impiegando fra i tre e i cinque anni si dovrebbe permettere a 400 camion di accedere giornalmente alla Striscia, senza restrizioni”. Egli ha affermato che i materiali da costruzione ammessi a Gaza sono stati circa il 18 per cento del totale necessario. Domenica scorsa il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri ha definito il progetto dell’ONU “inaccettabile, inefficiente”.
Alcuni hanno archiviato queste lamentele dei portavoce di Hamas come faziosi allarmi di una delle parti coinvolte in uno scontro di lunga data. Quando il piano è stato annunciato, a settembre, il Guardian ha riportato che diversi autorevoli dirigenti internazionali e ONG avevano duramente criticato i piani per monitorare l’importazione, lo stoccaggio e la vendita dei materiali da costruzione, notando che strategie come installare videocamere, istituire un team di ispettori internazionali e un database dei fornitori e degli acquirenti fossero più consone a un programma nucleare che a un tentativo di ricostruzione. Il piano concede anche il diritto a Israele di approvare – e, potenzialmente, di bloccare – i grandi progetti di costruzione, prevedendo anche la possibilità per Israele di esprimersi sulla località.
“Non è solo Isreale che dovrebbe auspicare questa soluzione”, dice Mark Regev, un portavoce del governo israeliano, in risposta alle critiche. “Anche le ONG e le organizzazioni umanitarie internazionali dovrebbero volerla. Non è interesse di nessuno che Hamas rubi materiale da costruzione, considerato che ha pubblicamente affermato di voler ricostruire i tunnel del terrore”. Dato che le distruzioni patite da Gaza durante la guerra erano volte a distruggere questi tunnel, non è sorprendente che il governo israeliano non cambi la sua posizione sul tema dei tunnel.
Pur tenendo conto di queste considerazioni, si potrebbe sostenere che il piano ONU prevede per lo meno alcuni progressi verso la ricostruzione, anche se è lento e limitato. Grosso modo questo è stata la linea adottata da Serry questa settimana, quando ha rilasciato una dichiarazione sull’avanzamento del piano: “In assenza di valide alternative, l’ONU considera l’attuale processo di ricostruzione come un passo importante verso l’abolizione di tutte le chiusure ai civili di Gaza”. Presumibilmente, questo è anche il motivo per cui Hamas non sta sabotando il piano, benché lo critichi pubblicamente.
Un certo progresso, per quanto limitato, è meglio di niente; ma ciò non significa che le pesanti ed eccessive restrizioni sulla ricostruzione di Gaza debbano essere dipinte come un generoso dono che il regime di Gaza dovrebbe accogliere con riconoscenza. Date le circostanze, il piano ONU consente per lo meno di iniziare a guardare avanti – ma indubbiamente l’eccesso di burocrazia sta rendendo il processo lento e le restrizioni sul materiale fanno sì che solo una parte della ricostruzione possa avere luogo. Il punto è che Gaza è soggetta a un blocco rovinoso, che rende sempre più difficile per i suoi cittadini vivere con dignità. I severi piani di monitoraggio sono un sintomo, più che una cura.
Traduzione di Lorenzo Emanuel per Infopal