L’assedio delle multinazionali agli spazi di discussione democratica è iniziato. E il cibo rischia di essere la prima vittima. Dopo il Food Systems Summit tenuto in pompa magna lo scorso settembre, la Fao ora ospita una conferenza sui benefici ambientali della biotecnologia. I movimenti contadini lanciano un appello: l’agenzia mondiale per l’agricoltura resti uno spazio aperto alla società civile
A pochi giorni dalla conclusione della prima fase della CoP15 della Convenzione sulla Biodiversità e in concomitanza con la CoP26 dell’UNFCCC, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) celebra la Conferenza mondiale sullo sviluppo green dell’industria sementiera, un vero e proprio manifesto dell’influenza ottenuta da parte dell’agroindustria all’interno degli uffici dell’agenzia.
Sono diversi anni che le organizzazioni e i movimenti contadini e delle Popolazioni Indigene membri del Comitato Internazionale di Pianificazione per la Sovranità Alimentare (IPC), tra cui Crocevia, denunciano l’infiltrazione del settore privato all’interno dei processi della FAO e si organizzano collettivamente per fermare la pericolosa intrusione dell’agroindustria nelle stanze in cui si adottano le politiche globali per l’alimentazione e l’agricoltura.
Esattamente un anno fa, l’IPC aveva inoltre pubblicamente denunciato l’accordo siglato tra la FAO e CropLife International, un’organizzazione che rappresenta gli interessi delle più grandi industrie agrochimiche del mondo come Syngenta, Bayer-Monsanto, BASF, ecc e che vorrebbe
“realizzare sistemi alimentari sostenibili e contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Questi risultati saranno ovviamente raggiunti attraverso lo sviluppo e l’implementazione di “nuove tecnologie sostenibili“…”.
La piattaforma globale dei movimenti indigeni e contadini in quell’occasione aveva ricordato come “L’insicurezza alimentare può essere sconfitta solo attraverso una collaborazione efficace con i governi, la società civile, le organizzazioni che rappresentano i produttori di cibo, soprattutto di piccola scala, il settore privato, il mondo accademico, i centri di ricerca e le cooperative; […] La FAO deve quindi rimanere uno spazio multilaterale neutrale di confronto, e non può essere cooptata dal tentativo degli interessi privati di realizzare profitti a spese dei produttori alimentari di piccola scala, dei consumatori, delle comunità locali e dell’ambiente.”
Un anno dopo, l’IPC insieme ad altre organizzazioni alleate, si trova a manifestare nuovamente il proprio dissenso e preoccupazione per l’ennesima, e questa volta davvero ostentata, intrusione dell’agroindustria nell’agenda politica della FAO. Come si legge nella dichiarazione pubblicata oggi sul sito della piattaforma globale e aperta alla firma di organizzazioni e accademici:
“Le basi stesse della conferenza sono inquinate dalla presenza di interessi industriali: il comitato direttivo è composto da rappresentanti dell’agribusiness o da ricercatori favorevoli all’uso delle biotecnologie in agricoltura.
I documenti pubblicati in preparazione dell’evento presentano un discorso industriale che elogia il “contributo essenziale delle sementi di qualità di varietà vegetali migliorate alla trasformazione dei sistemi agroalimentari, alla protezione dell’ambiente e al sostentamento degli agricoltori e delle comunità rurali di tutto il mondo” come unica soluzione per combattere “sfide senza precedenti, come il cambiamento climatico e la crescita della popolazione mondiale“. Riconosciamo che questa conferenza si inserisce nella direzione che la FAO vuole prendere per sostenere l’agricoltura industriale, che – ricordiamolo – rappresenta solo il 25% della produzione alimentare mondiale (FAO, 2014).”
E’ la stessa FAO che, in recenti report e studi pubblicati riguardanti la produzione di alimenti a livello globale e la biodiversità agricola, smentisce la narrazione industriale e a senso unico che questa Conferenza pretende di imporre: secondo i dati dello State of the World’s Biodiversity for Food and Agriculture del 2019, tra i principali motori della perdita di biodiversità globale troviamo “i cambiamenti nell’uso e nella gestione della terra e dell’acqua, l’inquinamento, il sovrasfruttamento e la raccolta, il cambiamento climatico, la crescita della popolazione e l’urbanizzazione“; la maggior parte di queste cause sono note conseguenze dell’agricoltura industriale.
In una ricerca del 2021, si legge chiaramente che “Cinque fattorie su sei nel mondo sono costituite da meno di due ettari, gestiscono solo circa il 12% di tutti i terreni agricoli e producono circa il 35% del cibo del mondo”
Sorge spontaneo quindi chiedersi: da che parte sta la FAO? Da quella di chi, su un fazzoletto di terre agricole produce un terzo del cibo globale, oppure da quella dei colossi della monocoltura e dell’allevamento intensivo?
In un periodo storico di profonda instabilità politica e sociale, in cui le persone che soffrono di malnutrizione sono in aumento a livello globale e in cui la biodiversità soffre un erosione continua, è fondamentale invertire il paradigma che ha portato il pianeta e le forme di vita che lo abitano ad affrontare una crisi climatica dagli effetti già devastanti in molte parti del mondo.
Per far ciò è necessario mettere al centro delle politiche globali, regionali e locali per l’alimentazione e l’agricoltura coloro che producono cibo seguendo il paradigma dell’agroecologia e rispettando quindi la terra, gli animali selvatici e addomesticati che la vivono, il lavoro che produce i frutti di cui ci nutriamo.
A questo link è possibile leggere la dichiarazione dell’IPC per la Sovranità Alimentare;
Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Centro Internazionale Crocevia