La storia di Riace non inizia con lo sbarco dei curdi nel 1998, quando un veliero approdò sulle spiagge di Riace Marina. Neanche quando Domenico Lucano venne inserito nella classifica Fortune del top 50 degli uomini più influenti del pianeta, nel 2016. Neanche quando, successivamente, da tutto il mondo sono venuti a studiare, conoscere, capire come in un paesino dell’entroterra calabro fosse possibile accogliere 350 migranti senza alcuna conseguenza negativa, anzi con gioia. No, la storia, quella che i più ricorderanno da ora in poi è una delle pagine più ignobili della nostra Repubblica e inizia sempre nel 2016, contestualmente al lancio su piano planetario del modello Riace come esempio di accoglienza virtuosa.
Nel 2016 viene infatti nominato prefetto di Reggio Calabria tale Michele di Bari, proveniente da Mantova ma di origini pugliesi. Riace in quegli anni aveva rapporti molto stretti con la Prefettura perché era sempre disponibile ad accogliere a tutte le ore i migranti che arrivavano. Un filo diretto tra istituzione e seconda accoglienza che funzionava. Poi improvvisamente, con questo cambio al vertice, tutto cambia. La notorietà di Riace acquisita in quel periodo attira l’attenzione. Iniziano le ispezioni della Guardia di Finanza, dei funzionari prefettizi. Questi ultimi si alternano nella strategia investigativa: chi legge le carte, chi visita il villaggio, chi si limita a osservare. Quattro relazioni in poco tempo, due a favore e due contrarie. Una di queste, quella più a favore, dove si descrive il modello di accoglienza di Riace come una bella favola, sparisce. I legali di Lucano dopo ripetute richieste aspetteranno un anno prima di poterla leggere per intero.
Il vice prefetto, Francesco Campolo, che l’aveva redatta, viene trasferito ad altro incarico. La prefettura diventa un luogo ostile, impossibile comunicare con i funzionari. Anche quando padre Zanotelli accompagna Lucano a un incontro con il prefetto, Michele di Bari non li riceverà. Intanto la macchina della “giustizia” va avanti. Vengono bloccati i finanziamenti, Matteo Salvini diviene Ministro degli Interni e da subito dichiara guerra allo “zero” Domenico Lucano. Va con le ruspe a San Ferdinando, spiana le baracche e tra i flash dei fotografi dichiara la fine della baraccopoli. Al suo fianco, sorridente e sornione, il prefetto di Bari. Di lì a poco, nel maggio 2019, Michele di Bari verrà nominato Capo dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, carica che ancora oggi ricopre. Riace nel frattempo senza finanziamenti arranca, partono iniziative a sostegno in tutto il mondo.
Nel 2017 Domenico Lucano viene iscritto nel registro degli indagati e il 2 ottobre 2018 arrestato e messo ai domiciliari, poi successivamente esiliato a Caulonia. I migranti presenti vengono allontanati da Riace, il paese si svuota in un baleno, come quando si spegne un interruttore. Famiglie di migranti ormai radicate a Riace di nuovo in viaggio, i più vengono mandati provvisoriamente a Crotone. Becky Moses, una ragazza nigeriana di 26 anni, si rifugia nella baraccapoli di San Ferdinando e dopo poco muore arsa viva. Tutto si ferma. Epilogo tragico di una storia in cui in molti, tanti, forse troppi, abbiamo creduto. Riace viene ringhiottita dai rovi e dalle macerie. Ma la “giustizia” fa il suo corso e viene istruito il processo a seguito dell’indagine Xenia a Domenico Lucano e ad altre 26 persone, suoi collaboratori, con capi d’imputazione gravissimi: associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Il 30 settembre 2021, dopo quasi due anni di dibattimento, arriva la sentenza. La procura è quella di Locri, ben nota per la sua “discutibile” interpretazione della giustizia, ma nessuno, veramente nessuno, si immaginava un tale esito. La sentenza, pesantissima, quasi raddoppia le richieste dell’accusa. Questo è quello che arriva oggi nelle case delle persone che seguono forse distrattamente l’informazione mainstream. Questo si voleva trasmettere a ridosso di elezioni regionali decisamente drammatiche, soprattutto in Calabria, dove la ‘Ndrangheta sta ultimamente recuperando terreno. Poche ore prima, l’incendio del ghetto di Campobello, dove ha perso la vita Omar, un migrante lavoratore, nell’assoluta disattenzione dei più e mentre sulle coste joniche a pochi chilometri da Riace, un’altra nave con 70 migranti viene scortata dalla guardia costiera.
Oggi non abbiamo più i decreti sicurezza, il Ministero degli Interni è retto da Luciana Lamorgese, ma la politica dell’accoglienza in Italia è comunque a uno stallo. Se dopo l’approvazione delle modifiche ai decreti sicurezza quasi nell’immediato è stato pubblicato il decreto attuativo per i CAS (centri di accoglienza straordinari), resta ad oggi bloccato il sistema di accoglienza SAI che ha sostituito l’ex SIPROIMI, cioè l’accoglienza strutturata in piccoli numeri e gestita dai Comuni. Come dire che ad oggi l’accoglienza è solo ed esclusivamente emergenziale. L’ANCI arranca, forte l’imbarazzo di chi chiede conto del ruolo che riveste o dovrebbe rivestire e i Comuni sono allo sbando, senza direttive né indicazioni su come accogliere, con tra l’altro l’emergenza Afghanistan in atto. Ecco, alla luce di quanto detto, nonostante il dolore per un fatto giudiziario veramente vergognoso che evoca processi di triste memoria come il caso Tortora, non ci si può stupire. Questa è la realtà dell’accoglienza in Italia oggi e nulla sembra muoversi per invertire questa tendenza.