«Tito è stato il simbolo più riconoscibile, rilevante e inviolabile della Jugoslavia socialista, e in questa cornice ci occupiamo soprattutto di questo aspetto. La sua morte ha finito col decapitare l’ordine simbolico e col causare una drammatica crisi nella società jugoslava, cui questa ha risposto attraverso manifestazioni collettive, di massa, e con varie forme di comunicazione simbolica: onori, irruzioni emotive incontrollate, funerali, canti, doni, celebrazioni. Alcuni hanno visto l’evento come un’occasione di cambiamento, e sono seguite critiche, provocazioni e controversie. In quel dramma collettivo, attraverso il quale è passata la Jugoslavia socialista, abbiamo individuato tre livelli: il primo è ufficiale – statale, normativo; il secondo è popolare – diretto, personale; il terzo è oppositivo o contestativo. Combinando questi livelli, potremo contribuire ad una comprensione migliore della complessità della Jugoslavia socialista e del ruolo stesso di Tito, nonché della loro eredità».
Così Tatomir Toroman, etnologo presso il Museo della Jugoslavia, a Belgrado, curatore della mostra «Il Compagno Tito è morto», in corso dal 25 maggio e fino al 25 maggio 2022, incorniciata cioè nella ricorrenza simbolica del 25 maggio, giornata di una delle celebrazioni più caratteristiche del socialismo jugoslavo. La «Giornata della Gioventù» (Dan Mladosti) trovava infatti la sua ricorrenza proprio il 25 maggio, compleanno non ufficiale di Tito. Sebbene la sua data di nascita fosse in realtà il 7 maggio, egli stesso modificò la data nel 25 maggio, per commemorare l’epopea che si consumò quel giorno, nel 1944, quando riuscì a sfuggire ad un assalto nazista, nel pieno della lotta partigiana, presso Drvar. In quella che sarebbe passata alla storia come la «Settima Offensiva Nemica», i paracadutisti delle Waffen SS si lanciarono contro il quartiere partigiano di Drvar (Bosnia) per catturare Tito, che sembrò essere senza scampo, trincerandosi nella difesa del presidio; l’eroica azione di poche decine di studenti partigiani, armatisi con le armi sottratte ai nazisti, diede corpo a una strenua resistenza, dando modo a Tito di sfuggire all’assalto. Quel 25 maggio assurse, allora, a vera e propria giornata di rinascita, di riscossa e di palingenesi, oltre che, tra vari altri, a mito costituente della Jugoslavia socialista.
La «Giornata della Gioventù» costituiva, in Jugoslavia, non solo il riverbero di un mito costituente, ma anche un vero e proprio “luogo della memoria”: riduttivo banalizzarlo a mera celebrazione di culto della personalità, più opportuno considerarlo, invece, come uno di quei momenti in cui, ripercorrendo la traccia della storia e del mito, la memoria collettiva, nella pratica sociale, veniva rivissuta, e la narrazione pubblica, nell’evento celebrativo, aggiornata. Era, in fondo, una celebrazione della «gioventù del socialismo» e, prima ancora, della «fratellanza e unità» tra i popoli e le nazionalità della Jugoslavia, al tempo stesso, federale e socialista, una delle ragioni fondative della federazione. Come si diceva: «sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito». In quarant’anni, dal 1945 al 1988, ventimila testimoni della staffetta hanno percorso in lungo e in largo la Jugoslavia. Non a caso, proprio il Museo della Jugoslavia, con la raccolta già nota come “Figure sećanja” («Raffigurazioni della Memoria»), ne conserva oggi una straordinaria collezione.
Con questa nuova mostra, «Il Compagno Tito è morto», ancora il Museo della Jugoslavia, dunque, sviluppa la riflessione su argomenti e fatti, temi ed eventi che appartengono alla storia della Jugoslavia del Novecento, stavolta letti attraverso la vicenda umana e pubblica di Tito. Non a caso, la mostra è tutt’altro che retorica o celebrativa: da un lato, rende evidente la caratura complessa e multidimensionale di una figura, peraltro, cruciale non solo della storia jugoslava ma dell’intero Novecento (e questa “inquadratura” è più che palese nell’organizzazione della mostra); dall’altro, a partire dalla morte di Tito, mostra l’incertezza sociale che ne è seguita, come indica l’ampio spazio riservato alle reazioni a livello di massa e alle voci delle persone comuni, i cittadini e le cittadine della Jugoslavia, nell’immediatezza e dopo la morte di Tito. Il tutto attraverso una vasta e multiforme carrellata di materiali e fotografie, documenti e stampe, immagini e poster, manufatti.
Come ricorda un altro momento della mostra, infatti, «in occasione della morte del presidente Tito, fu rispettato il lutto nazionale dal 5 all’8 maggio 1980 in tutta la Jugoslavia. Fu durante queste giornate di lutto, spesso ricordate come le «Giornate del dolore e dell’orgoglio», che una serie di foto con lo stesso nome fu realizzata a Belgrado a cura di Goranka Matić. Un totale di settanta fotografie mostravano allora vetrine di negozi in cui i ritratti di Tito venivano esposti e decorati con nastri neri. Questa inusuale manifestazione del lutto, avviata spontaneamente dai cittadini e dalle cittadine, si svolgeva al di là dei protocolli ufficiali, e delle modalità commemorative rigorosamente regolamentate». È questa, del resto, una delle chiavi di lettura possibili di questa mostra: da una parte, la prossimità del dolore, con quell’insieme di manifestazioni personali e pubbliche che finirono per accompagnare uno dei più gravi eventi della storia del secondo Novecento; dall’altra, il riconoscimento, vasto e risonante, di una grande figura della storia, non solo del socialismo.