Il giorno dopo la festa nazionale per il compleanno di Nelson Mandela, il 18 luglio, il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha provato ad accarezzare lo spirito pacifico dei sudafricani: “Il paese che ha celebrato il Mandela Day non è un paese in ginocchio”. La giornata, da quando è stata istituita dalle Nazioni Unite, è da sempre dedicata ad attività di volontariato a supporto delle persone bisognose e ad azioni per il bene comune: festeggiare il padre nella Nazione Arcobaleno con quel sentimento di unità, l’ubuntu, secondo cui “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”.
E mai come in questo 2021 ce n’era bisogno, dopo una settimana di rivolte che hanno messo a ferro e fuoco, letteralmente a fuoco, la Nazione Arcobaleno. Come già avevano fatto anche nei giorni precedenti, centinaia di sudafricani si sono schierati a protezione dei bersagli presi di mira dai manifestanti e hanno ripulito le strade e le piazze dai segni degli scontri e dei saccheggi costati almeno 200 vite e oltre 3mila persone arrestate. Per non parlare dei posti di lavoro al momento saltati, in un paese con un tasso di disoccupazione che sfiora il 40%. Secondo prime stime, sarebbero almeno 50mila le persone che ora rischiano di non avere più un lavoro
Per ora, 20 luglio, sono stati effettuati sei “arresti chiave”, come vengono definiti da un comunicato della Polizia che ne annuncia altri in arrivo. L’accusa è di incitamento alla violenza: tra loro un esponente politico di Johannesburg e un dj.
Tutto era iniziato con la carcerazione dell’ex presidente Jacob Zuma, condannato a 15 mesi di reclusione per essersi rifiutato di testimoniare in un processo per corruzione, uno dei tanti aperti a suo carico, per fatti accaduti quando era ancora il Capo di Stato. La notte tra il 7 e l’8 luglio Zuma si era costituito al Centro Correzionale di Kokstad, per evitare che la polizia andasse a prelevarlo direttamente nella sua lussuosa villa di Nkandla, sulla cui ristrutturazione pendono accuse di appropriazione indebita di soldi pubblici. Tre giorni dopo, nel KwaZulu-Natal, la regione dello Zulu Zuma, scattavano le prime aggressioni contro negozi e centri commerciali e le razzie di ogni bene: nel giro di poche ore si sono replicate nelle grandi città, da Durban a Johannesburg, e poi nelle altre regioni, da Nord a Sud. Si guarda con sospetto di incitamento alla rivolta anche alla figlia dell’ex presidente, Duduzile, a suo fratello Duduzane, che ha negato e anzi ha poi lanciato un appello alla calma e all’ex capo dell’Agenzia della sicurezza sudafricana (SSA), Thulani Dlomo. All’indice anche Julius Malema, fondatore e capo dei Combattenti per la libertà economica – l’Economic Freedom Fighters, EFF – che in Parlamento si presenta con tuta e baschetto rossi e che, urlando alla riscossa, raccoglie consenso tra i giovani poveri delle township. Ex enfant prodige dell’African National Congress, il partito che fu di Mandela e che governa il paese dalla fine dell’apartheid, Malema ha creato dal niente un movimento che ha riscosso successo immediato promettendo scuole, servizi sanitari e case gratis. E lavoro. Insomma, tutte cose che ancora rimangono appannaggio di pochi privilegiati.
Soffiare sul malcontento della popolazione è attività redditizia e soprattutto a costo zero. Ancorché pericolosa. E anche stavolta ha dato i suoi frutti, benché marci. A differenza del più cauto Presidente Ramaphosa, la Ministra della Difesa, Nosiviwe Mapisa-Nqakula, non ha usato mezzi termini: per lei si è trattato non di un’insurrezione, come detto da tutto il governo a partire dal presidente, ma di una controrivoluzione: “La democrazia sudafricana è sotto minaccia”. Dopo due giorni di polemiche interne al governo, la ministra ha sposato la linea maggioritaria dell’insurrezione popolare. Intanto lo schieramento di polizia veniva decuplicato, passando dalle prime 2.500 a 25.000 unità messe a protezione dei bersagli dei manifestanti, comprese le caserme della polizia stessa. Un provvedimento tardivo, è l’opinione diffusa, preoccupata per i numerosi posti di lavoro persi con la distruzione delle attività commerciali, in un paese che soffre alti tassi di disoccupazione. Perché sotto i colpi dei “vandali”, come sono vengono chiamati, non sono finiti solo le banche e i bancomat, almeno 1800 solo nel KwaZulu-Natal e nel Gauteng, ma anche, come si diceva, tanti centri commerciali; fast food, ristoranti, negozi grandi e piccoli, anche piccolissimi; alberghi; resort; pompe di benzina. Per giorni interi tratti delle autostrade sono stati impraticabili ed è stata difficile la distribuzione di generi di prima necessità in tutto il paese, dai carburanti alle farine. Ed è stato impossibile pagare in contanti quel che si trovava, visto che non si poteva prelevare. Secondo calcoli non ancora definitivi l’impatto delle rivolte varrebbe uno 0,76% del Prodotto interno lordo, il PIL.
L’ondata di violenza, praticata con ogni strumento, non ha risparmiato niente: ha distrutto e svuotato i centri commerciali di lusso dei ricchi, ma anche la catena di supermercati low cost Shoprite, che ha contato 200 market devastati su 1.800, dove va la maggioranza di quella classe medio bassa che vive ancora nelle baracche di latta, ma spera di vedersi assegnati dallo Stato quattro muri veri, in mattone, in cambio di un affitto minimo. I bancomat rimasti senza soldi sono stati pezzo a pezzo scardinati da bande di ragazzi per rivendere i metalli e farci qualche rand anche loro. Il tutto mentre la moneta sudafricana continua a crollare sul mercato.
A peggiorare ulteriormente il quadro, la nuova impennata di casi di Covid e la difficoltà a reperire sul mercato i vaccini per tutti. I numeri di ieri: 7.209 nuovi positivi, 221 morti e 233.097 somministrazioni di vaccini per un totale di poco più di 5 milioni su una popolazione 60 milioni, nemmeno il 10% di copertura. Una situazione di paura e tensione su tutti i fronti che tiene lontani i turisti, una delle principali risorse economiche del paese e gli investitori preoccupati da tensioni sociali continue, da infrastrutture vecchie e da una crescita insoddisfacente.
“Un paese fallito”, titolava la settimana scorsa, nel pieno dei disordini, uno dei principali giornali d’informazione e inchiesta del Sudafrica, il Daily Maverick. Insicurezza alimentare, criminalità, disoccupazione, insufficienza energetica in un paese che era autosufficiente e addirittura esportava l’energia: fuggono i privati cittadini che possono e fuggono le aziende. Molta della colpa viene imputata proprio a Jacob Zuma, il più odiato dei presidenti del Sudafrica, rimasto in carica dal 2009 al 2018, quando venne faticosamente rimosso, dopo anni di tentativi e dopo mesi di trattative e sostituito con Ramaphosa, sindacalista e imprenditore ma soprattutto ex braccio destro di Nelson Mandela. Su Ramaphosa, apprezzato a livello internazionale, si erano concentrate tutte le speranze per far risorgere il paese, ma le condizioni di partenza e la pandemia hanno reso l’insoddisfazione una brace sempre pronta a riaccendere fiammate pericolose.