Le stime presentate da ENI sui dati relativi alla riduzione delle emissioni ottenuta con progetti di protezione delle foreste sono gonfiate. Nonostante i ripetuti annunci di svolte “green” l’azienda, dunque, continua ad avere un pesante impatto sul clima del pianeta. È quanto emerge da un’analisi scientifica commissionata da Greenpeace Italia, che ha analizzato il Luangwa Community Forests Project, in Zambia, l’unico progetto REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation in developing countries) in cui è coinvolta ENI di cui è stato possibile ottenere i documenti.
Il Luangwa Community Forests Project è il più grande progetto REDD+ per numero di beneficiari, oltre che il più ampio in Africa per superficie coperta. Ma, secondo l’analisi effettuata dall’organizzazione ambientalista, il progetto zambiano finanziato da ENI sovrastima i crediti di carbonio generati che, nella realtà, rischiano di essere circa la metà di quelli previsti.
«I progetti REDD+ funzionano benissimo in termini di immagine: chi si schiererebbe contro aziende o governi che dichiarano di voler proteggere le foreste?», commenta Martina Borghi, responsabile campagna foreste di Greenpeace Italia. «Tuttavia, acquistare certificati equivalenti a tonnellate di emissioni di CO2 ipoteticamente risparmiate grazie alla protezione delle foreste, non diminuisce le effettive emissioni di CO2 e, anzi, permette alle aziende come ENI di comprare il diritto di continuare a inquinare».
Come spiegato in un recente report di ReCommon e Greenpeace Italia, i progetti REDD+, più che salvaguardare le foreste e chi le abita da generazioni, sono diventati nel tempo uno strumento di greenwashing grazie al quale le aziende possono continuare a emettere CO2. Inoltre, hanno spesso violato o messo in secondo piano i diritti dei Popoli Indigeni e delle comunità forestali tradizionali che da generazioni abitano le aree interessate o limitrofe a questi progetti. È comune, infatti, che non vedano riconosciuto il proprio diritto alla terra (blindata per esigenze di progetto) o che vengano addirittura presentati come una minaccia per la biodiversità e per le foreste, a causa di pratiche culturali o di sussistenza che prevedono l’accesso alle risorse forestali.
Secondo l’analisi commissionata da Greenpeace Italia, la sovrastima dei crediti di carbonio generati dal Luangwa Community Forests Project deriva dalla sopravvalutazione della densità di popolazione, per altro individuata come la più importante causa di deforestazione dell’area interessata dal progetto. Anche il tasso di deforestazione indicato nell’area di riferimento, necessario per calcolare il tasso di deforestazione che il progetto permetterà di evitare, è più alto di quanto riportano tutti gli studi di settore fatti sulla deforestazione in Zambia. E mentre si sovrastimano i lati ambientali del progetto, sembra esserci una sottovalutazione dei possibili rischi, come quello degli incendi. Gli incendi, infatti, costituiscono una seria minaccia per il successo dei progetti REDD+ perché possono rilasciare in atmosfera il carbonio immagazzinato nella vegetazione, vanificando i crediti di carbonio già venduti e utilizzati per compensare emissioni ormai effettuate.
Per Greenpeace Italia, i progetti di conservazione forestale non possono essere considerati la via per ridurre le emissioni delle multinazionali dei combustibili fossili. «Se ENI vuole davvero fare la propria parte nella lotta all’emergenza climatica in corso, non deve nascondersi dietro false soluzioni come i progetti REDD+ o quelli di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS). E neppure aumentare le estrazioni di gas e petrolio, come prevede di fare nei prossimi quattro anni. L’unica soluzione è abbandonare gradualmente ma in fretta i combustibili fossili, investendo davvero in rinnovabili ed efficienza energetica», conclude Borghi.
Leggi il media briefing (in italiano) “ENI: licenza di inquinare”