Una notizia che potrebbe rappresentare un approccio differente nella cura del Covid, che potrebbe evitare l’aggravarsi della malattia e il ricovero in ospedale con cure domiciliari più tempestive e adeguate di quanto non siano state finora. Lo studio per il trattamento domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 a “firma” Suter, Perico e Remuzzi, è stato pubblicato nei giorni scorsi su “EClinicalMedicine”, la rivista che fa capo alla prestigiosa testata inglese “The Lancet” (una delle bibbie in ambito medico-scientifico) ottenendo quell’ufficialità scientifica alla quale corrisponde “dignità” medica e autorevolezza all’interno della comunità internazionale. Il documento, che era stato divulgato in versione pre-print nell’aprile scorso, proprio per trasmettere ai medici di medicina generale dati ritenuti significativi, è apparso ora sull’autorevole rivista con il titolo “A simple, home-therapy algorithm to prevent hospitalization for Cvid-19 patients: a retrospective observational matched-cohort study”, ovvero, tradotto: “Un semplice algoritmo per il trattamento domiciliare di pazienti Covid-19 per prevenire l’ospedalizzazione”.
Tre le parole chiave: domiciliare*, prevenire*, ospedalizzazione* che stanno ad indicare un percorso di cura ma, allo stesso tempo, suggeriscono indirettamente un indirizzo “politico”. Del quale gli amministratori dovranno, o comunque dovrebbero, tenere conto, soprattutto a fronte di una campagna vaccinale a differenti velocità – la Toscana è risultata essere agli ultimi posti della classifica delle dosi somministrate sul totale della popolazione (e, nonostante il ministro Speranza in visita agli hub di Firenze e Prato lunedì 28 giugno, l’abbia promossa, i numeri sono impietosi, vedi grafico del Corriere della Sera qui accanto) – e con l’insidia delle varianti con le quali ci potremmo trovare a fare i conti nel prossimo autunno, quando il sistema sarà definitivamente chiamato alla prova. Il che significa non solo arrivarci con una popolazione il più possibile vaccinata ma anche con strutture, personale e protocolli adeguati. In sintesi: con le idee se non chiarissime, almeno più chiare di quanto non lo siano state finora. Uno sforzo che ci aspettiamo sia supportato da fatti che, a tutt’oggi, non sembrano così strutturati, a fronte dell’immenso lavoro e dei sacrifici chiesti al personale medico, paramedico e all’intera popolazione, con le fasce più deboli che si sono trovate a pagare i prezzi maggiori.
Ideato e messo a punto dal professor Fredy Suter, per anni primario dell’Unità di Malattie infettive degli allora Ospedali Riuniti e oggi primario emerito dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs, insieme a un nutrito numero di collaboratori e a un gruppo di medici di famiglia, lo studio punta l’accento su una questione strategica nella lotta al Covid-19: curare a casa non solo sarebbe possibile ma l’intervento tempestivo, alla comparsa dei primi lievi sintomi, senza aspettare l’esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e ridurre l’ospedalizzazione. Un passaggio di estrema importanza se si considera che il sistema sanitario è andato in crisi – in Italia come altrove – proprio per l’inevitabile massiccio ricorso agli ospedali, ai pronto soccorso e alle terapie intensive, a fronte della mancanza di livelli intermedi operativi, di protocolli domiciliari chiari da sottoporre ai medici di famiglia e, soprattutto, in assenza di una medicina territoriale organizzata e efficace.
Lo studio evidenzia anche come i farmaci antinfiammatori non steroidei (i cosiddetti Fans), assunti al domicilio del paziente, ovviamente sotto controllo dei medici di medicina generale, “senza improvvisazioni o fai-da-te”, come si raccomanda, siano probabilmente quelli più indicati nelle fasi iniziali della malattia. Tanto che – si evidenzia – i risultati sono comparabili a quelli riportati da Lancet su un farmaco cortisonico comunemente usato per l’asma che si somministra per inalazione.
Contestatissimo da più parti, il protocollo iniziale, denominato “della vigile attesa”, ritenuto troppo blando, quando addirittura “inutile”, è stato superato anche grazie a questo studio di cui è stato tenuto conto nella stesura del nuovo protocollo con il quale il ministero ha aggiornato alla fine dello scorso aprile, le linee guida per le cure domiciliari. Non senza discussioni, rimpallo di protocolli, voci discordanti, dopo che lo stesso ministero della Salute aveva riconosciuto lo “scenario di incertezza” nel quale si sono trovati ad operare i medici chiamati a contrastare la pandemia, dopo le polemiche sulle linee guida dell’Aifa e l’ordinanza del Tar del Lazio del 2 marzo scorso che sanciva che i medici non sono tenuti a osservarle, dopo i botta e risposta continui Stato-Regioni che hanno contribuito non poco ad aumentare il livello di disorientamento.
Il programma messo a punto da Suter, Perico e Remuzzi, ha confrontato 90 pazienti trattati con questo metodo ed altri 90 con le stesse caratteristiche cliniche ma trattati con altri regimi terapeutici. Soltanto due pazienti del primo gruppo sono finiti in ospedale rispetto ai 13 del secondo. Il 2,2% contro il 14,4%, con un minor impatto dei giorni di ospedalizzazione e un minor carico non solo economico ma anche psicologico per i malati e per le loro famiglie. Il nodo cruciale resta comunque l’avvio tempestivo di cure “opportune” nei primi 7-10 giorni, il che potrebbe davvero arginare la diffusione del Covid, con un deciso cambio di mentalità nel rapportarsi al virus. Perché, laddove il dibattito si sta concentrando prevalentemente sui vaccini, immaginando comunque – come sottolineano in molti fra virologi, infettivologi ed esperti – un futuro che si prospetta di convivenza con il Covid, è innegabile che le cure precoci domiciliari siano centrali se si ritiene la riduzione dei ricoveri in ospedale come un necessario obbiettivo sociale oltre che sanitario. Un traguardo in cui ai farmaci di nuova generazione, si dovrebbe unire l’appoggio delle strutture assistenziali domiciliari in uno sforzo centrale e periferico che dovrebbe ridisegnare il servizio sanitario rendendolo più vicino alle persone nonché più sinergico con l’assistenza sociale. Un modello che, si dice, si stia costruendo con il Pnrr ma che ancora non ha una fisionomia ben precisa sebbene, ormai, ci sia la consapevolezza che la medicina territoriale avrebbe potuto rappresentare un’arma davvero efficace contro la diffusione del virus. E allora, verrebbe da chiedersi, che cosa si aspetta ancora?
Intanto, una serie di presìdi davanti alle sedi Rai regionali per chiedere una maggiore informazione su questo tema, sono stati organizzati proprio in questi giorni a supporto del Comitato Terapia Domiciliare Covid-19, che da tempo chiede più ascolto e il coinvolgimento dei medici di medicina generale nelle differenti fasi decisionali.
Un fatto è certo: questa pandemia lascerà tracce che non potremo dimenticare facilmente. Anche nelle coscienze (per chi ce l’ha). Tracce che dovrebbe funzionare da spartiacque: forte, profondo, marcato come una cicatrice, ma anche occasione necessaria da cui ricominciare per mettere ordine in una sanità pubblica che è stata afflitta da tagli e ridimensionamenti, soggiogata e piegata a modelli aziendalisti; una sanità che deve ritrovare proprio nel suo essere pubblica, il collante con la società, a partire da una riorganizzazione di quel rapporto con il territorio che ora tutti invocano ma che è stata drasticamente vivisezionata, laddove invece rappresenta la prima irrinunciabile cerniera fra pazienti e servizio sanitario. Una possibilità ulteriore di “salute”.
Artemis