Francesca Nava è una giornalista bergamasca di lunga data, laureata in lingue e letterature straniere, inglese e russa. Da tanti anni lavora a Roma, ha vissuto in prima persona molte rivolte popolari degli ultimi anni, prodotto importanti inchieste, documentari e libri. Conosco Francesca da molto tempo e mi permetto di chiederle di raccontarci la sua storia. In fondo è raro, ma molto interessante, che un giornalista venga intervistato…
Francesca comincia dall’inizio…
La mia passione per la letteratura russa viene dall’adolescenza, dalle scuole superiori, avevamo un professore di lettere che le ultime due ore del sabato lasciava perdere il programma tradizionale e ci faceva leggere dei romanzi stranieri. Ci prestava i libri della sua libreria e ogni sabato uno sceglieva un libro e poi doveva parlarne alla classe senza “spoilerare”. Da allora mi sono appassionata a Dostoevskij, colpita in particolare da “Delitto e castigo”. Già a 14 anni mi ripromisi di leggerlo, un giorno, in lingua originale.
Ho studiato all’università Cattolica, perché solo lì c’era quello che cercavo. Ho viaggiato a lungo avanti e indietro da Bergamo a Milano. Ho fatto tanti lavori durante gli studi: cameriera, consegna pizze, credito al consumo, insegnante di inglese, ma ho vinto anche delle borse di studio. Mi sono specializzata in scienze dell’informazione. Nel 1998, dopo l’università, sono stata in Messico per un anno. È stato un viaggio che mi ha cambiato la vita e mi ha legata fortemente a quel Paese, a quel continente. Ho seguito da vicino la lotta zapatista, fino a farne più avanti, nel 2006, un documentario, L’Altro Messico, uscito con la rivista Carta e Liberazione.
Mentre ero lì, nel 1999, ho saputo di avere vinto una borsa di studio, molto costosa, per una scuola di giornalismo, sempre in Cattolica. I due anni di specializzazione mi permettono di fare direttamente il praticantato: tre mesi all’ANSA di Buenos Aires, e tre all’ANSA di Madrid. Massimo dei voti sia alla laurea che alla scuola di specializzazione in giornalismo. La tesi la scrivo a Londra dove passo sei mesi facendo lunghe ricerche su come la stampa britannica aveva raccontato la perestroika di Gorbaciov. La sera lavoro in un ristorante italiano. Da allora apprezzo la stampa anglosassone e tuttora al mattino comincio la giornata leggendo il New York Times. L’attenzione agli esteri è certo maggiore che da noi, ancora troppo provinciali.
Il russo lo avevi imparato bene?
Si, il russo è una lingua molto difficile, simile al latino o al tedesco, richiede un grande sforzo. Fin dal primo anno di università mi sono recata in Russia tutte le estati. Un anno io, una mia compagna di università e un’amica russa subimmo un sequestro lampo, fu davvero incredibile. Era un momento particolare, da poco si era disfatta l’Unione Sovietica, c’era molta malavita, mafie, gruppi. A Mosca ci fermarono con i coltelli alla mano. Tre macchine bloccarono la nostra in mezzo al traffico. Riuscimmo a scappare, correndo e correndo, inseguite, infilandoci in metropolitana dove salivamo e scendevamo per cercare di seminarli. Scampata quel giorno (cosa che raccontai ai miei 20 anni dopo) passai il resto dell’estate in casa, a studiare con la mia insegnante. Imparai moltissimo! Il russo un po’ l’ho perso, ma anni dopo, quando mi trovai in piazza Maidan a Kiev, mi salvai grazie alla possibilità di capire cosa dicevano o scrivevano. Mi trovavo lì con Fabio Colazzo, col quale spesso ho collaborato, lui telecamera alla mano: siamo stati a Gaza, in piazza Taksim e altrove.
Che immagini e fantasie avevi a 20 anni sul mondo dell’informazione e sul lavoro di giornalista? Come sono oggi?
Io faccio parte di una generazione di mezzo, tra la vecchia guardia di giornalisti, assunti dalle redazioni, corrispondenti o inviati di guerra ma non solo, che erano sul campo e raccontavano spesso con passione, e questo “nuovo giornalismo”, che potremmo definire “mordi e fuggi”, in cui il tempo è poco sia per rimanere sul luogo che per aver spazio e minuti nel racconto. Sono legata a quel primo mondo di cui mi sento erede, amo documentarmi, cercare storie, viaggiare, leggere, guardo moltissimi documentari, approfondisco. Per questo, dopo anni in varie redazioni, essere ora approdata a Presa Diretta mi fa star bene, perché qui i tempi dei reportage sono più distesi, il passo è più lungo. Qui credo che il giornalismo compia la sua funzione: aiutare a decodificare la complessità della realtà.
Ho lavorato a lungo anche a Piazza Pulita (La7) dove ho potuto fare dei servizi ampi di 16-18 minuti che hanno vinto anche dei premi, come “Melilla: la frontiera della vergogna” (vincitore de L’Anello Debole) o “Occhio al farmaco” (Premio Ilaria Alpi), ma il più delle volte bisognava stare dentro i 5-6 minuti ed era molto difficile, spesso frustrante.
Ho comunque scelto la difficile strada della free lance, cosa che non mi dà tranquillità per quel che riguarda alcune garanzie come contratto, salute, permessi, pensione, ma mi dà una grandissima libertà, alla quale non voglio rinunciare. E’ questo che mi rende ancora così appassionata del mio lavoro. Scelgo quasi sempre cosa e dove pubblicare. I compromessi ci sono, certo, ma sono accettabili.
Vivo ancora con un’immagine abbastanza idealizzata del giornalismo, ho scoperto quanta “politica” ci sia nelle redazioni, ma sono sempre riuscita a pubblicare quello che credevo importante e giusto, magari non laddove lo avevo proposto inizialmente. A volte mi rammarico per colleghi che, lavorando in esclusiva per un’unica testata, hanno dei veri e propri paletti che non possono oltrepassare.
Certo la gavetta me la sono fatta anch’io, per anni, ore e ore di appostamenti davanti ai palazzi romani in attesa che uscisse il tal politico. Credo ci sia bisogno di passare anche attraverso questo. Ho fatto tanti servizi e scritto articoli che non erano nelle mie corde, ma ho comunque cercato di farli con professionalità. La gavetta comunque non finisce mai.
E poi fai documentari…
Si, feci quello sulla lotta zapatista, poi uno in coproduzione con Rai 3 “Inventori di malattie” (sul disease mongering, la mercificazione delle malattie), sono ideatrice e co-regista di “Terroriste. Zehra e le altre” (Creative Nomads Production, qui il trailer) sulla repressione del governo turco nei confronti di tre donne, due turche e una curda, quest’ultima – Zehra Dogan – arrestata per un dipinto.
Questi lavori, di 50-60 minuti, come il mio libro-inchiesta “Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale” (Ed. Laterza) sono ciò di cui vado più orgogliosa e che davvero mi rappresentano. La realtà è complessa e va analizzata a fondo, evitando slogan sensazionalistici e giudizi a priori. E c’è un grande pubblico in Italia che cerca questo approfondimento: non sarà la maggioranza, ma c’è ed è consistente. Non demonizzo affatto la cronaca, ma il giornalismo d’inchiesta deve attingere dalla cronaca e andare oltre, ben oltre, cercando le cause profonde, l’origine delle cose. Il sistema va scandagliato, ed è un servizio necessario perché i cittadini siano informati e decidano, scelgano di conseguenza.
Noi oggi sappiamo che la pandemia del 2020 è stata probabilmente la pandemia più annunciata della storia! L’impreparazione dell’Italia, come dell’80% degli stati del mondo, non è stata casuale, ma è dovuta ad uno smantellamento della sanità pubblica, ad una visione della salute come fonte di profitto. Compito della stampa, e in seconda battuta della magistratura, è di chiarire le responsabilità di una catena di comando che non ha funzionato. C’è il rischio che finisca in “tutti responsabili – nessuno responsabile”, questo non deve avvenire. Dovremo invece ridisegnare un sistema.
Durante i tuoi 20 anni di lavoro internet è cresciuta esponenzialmente. Tu cosa ne pensi?
Lo strumento internet è un’arma a doppio taglio, perché se da un lato questo permette ad un’ampia fetta di popolazione di accedere ed essere lei stessa fonte di informazione (molto spesso dei giornalisti riprendono video fatti da cittadini), dall’altra vedo nel settore dell’informazione una precarizzazione brutale, un trattamento economico vergognoso. Il giornalismo DEVE investire sulle persone, donne e uomini che producono notizie. Bisogna dare ai giornalisti il giusto tempo, non si può continuamente correre e ridurre.
Ti faccio un esempio di cosa intendo per “tempo”: le 36 ore passate in piazza Maidan a Kiev, durante quella rivolta – momento nel quale più mi sono sentita dentro la storia – la frustrazione è stata altissima.
Abbiamo avuto troppo poco tempo per capire, decifrare i vari soggetti presenti. Siamo stati catapultati per quelle poche ore, dopo 6 ore passate in aeroporto dove nessuno voleva farci un’assicurazione, e poi 36 ore col giubbotto antiproiettile, in mezzo a cadaveri ancora caldi. Il tempo necessario doveva essere di più. Per quanto mi fossi preparata prima, la realtà è sempre un’altra cosa, la realtà è stupefacente. Spesso succede che arrivi con una tua tesi in testa, ma poi ti rendi conto che la realtà è ben diversa, molto più frastagliata, contraddittoria, ma per fare tutto ciò hai bisogno di tempo. Questo è giornalismo serio e corretto.
Da allora qualcosa mi si è chiarito davvero e non ho più accettato “missioni mordi e fuggi”. Rischi infatti di scrivere o raccontare cose scorrette, fare cattiva informazione, ma rischi anche di giocarti la reputazione.
Preferisci essere sempre accompagnata da una telecamera?
No, per quanto sia riconosciuta soprattutto come giornalista televisiva, preferisco il taccuino in mano, vecchio stampo. So che la telecamera spesso blocca, inibisce, crea ansia da prestazione. La telecamera può creare dei mostri. Proprio per quel discorso che facevo prima, solo ascoltando e prendendo appunti qualcuno può aprirsi davvero e tu puoi andare più a fondo. La televisione spesso spettacolarizza o addirittura mistifica.
Per esempio, ho fatto un lunghissimo lavoro a Ceuta e Melilla con i migranti, ma se non avessi avuto la telecamera avrei raccolto molte più storie. Le persone hanno voglia di parlare, ma non vogliono o hanno paura di apparire. Detto questo, il reportage televisivo, quando fatto bene e con i tempi giusti, sa comunicare come poco altro. Un’immagine parla più di mille parole.
Ti faccio un nome: Anna Politkovskaja.
Un grandissimo esempio di donna e di giornalista, un simbolo. Una figura che andrebbe studiata, approfondita. Se vogliamo parlare della dissidenza russa (ben poco raccontata in Italia) potremmo parlare qui per ore, fino al caso di Navalny, interessante e controverso. Ricordiamoci che la realtà non è mai bianca o nera.
Ti dico una cosa: sono sempre stata “etichettata” come giornalista esterofila, spesso in cerca di storie lontane, convinta che l’attenzione a ciò che succede lontano da noi permette di relativizzare la nostra realtà, e poi curiosamente sono stata la prima giornalista italiana che si è occupata della propria città, Bergamo, e della tragedia che in quella zona si è consumata. E’ un cerchio che si chiude. In quei giorni nella mia terra c’erano tutti i giornali e le reti del mondo, è passata alla storia.
Concludo dicendoti che sono dovuta davvero “scendere a patti” quando quattro anni fa è nato mio figlio. Lì la mia vita di giornalista ha visto un radicale cambiamento, c’era un altro essere umano che dipendeva al 100% da me. Non c’era più solo la mia passione, il “fuoco sacro” che mi divorava, ma c’era lui che chiedeva le mie attenzioni. La nascita di mio figlio mi ha riportato coi piedi per terra, è stato un periodo non facile. Ora sto trovando una sintesi e si va avanti. La pandemia in questo è stato uno spartiacque formidabile, da una parte ho vissuto tantissimo con la mia famiglia, e dall’altra ho vissuto un periodo di tensione massima perché avvertivo che quello che succedeva nella mia città era davvero una tragedia. L’andare a Bergamo in “missione” ha fatto sì che stessi lontana 40 giorni da mio figlio. E’ stata dura, ma ce l’abbiamo fatta. Alla fine mi sono licenziata dalla redazione in cui lavoravo per poter ritrovare l’equilibrio tra lavoro e famiglia. Comunque, rifarei tutto.