Difficilmente una norma in discussione nel nostro parlamento ha aperto tante problematiche e provocato tante polemiche e distinguo come il ddl-Zan contro l’omotransfobia. La cosa è in sé tutt’altro che negativa poiché l’asprezza delle polemiche ci appare tipica di un passaggio, in qualche modo storico, nella considerazione dei valori che stanno alla base del modo di intendere la sessualità come parte delle relazioni personali e sociali.
Diciamo subito che il ddl-Zan, anche da parte di chi ne difende l’impianto generale e le finalità, può presentare diverse criticità, sulle quali tuttavia non si può intervenire (noi lo faremo in seguito), se non si sgombra il campo da quella vera e propria crociata, fatta di critiche strumentali e vere e proprie menzogne, messa in atto dalle forze più retrive, col solo scopo di affossare la legge (anzi qualsiasi possibile legge sull’argomento).
La prima questione, forse la più importante, riguarda l’identità di genere. È vero che in vari paesi occidentali esistono leggi sulla self identity che prevedono la possibilità di autocertificare la propria identità sessuale come diritto della persona, con esiti assurdi, come nel caso, ormai divenuto famoso, dei circa 170 detenuti della California che si sono dichiarati donne pretendendo il trasferimento nelle carceri femminili. Ma tutto questo col ddl-Zan è impossibile, poiché il concetto di identità di genere non è introdotto come diritto immediatamente esigibile, ma come elemento di protezione contro discriminazioni o violenze. Per intenderci: con la nuova legge, se una mattina mi sveglio pensando di essere diventato donna, io non posso andare all’anagrafe e pretendere che sulla mia carta di identità sia scritto “femmina”, ma posso essere protetto da discriminazioni e violenze, per esempio non posso essere licenziato né aggredito. Altra questione riguarda la maternità surrogata (utero in affitto) che secondo l’on. Pillon con le nuove norme diventerebbe un “diritto dei gay”. Cosa che è semplicemente falsa, poiché nella legge la questione non viene neppure menzionata.
Va aggiunto, per la verità, che a questo proposito, oltre le logiche distruttive e menzognere di attacco alla legge, diverse perplessità, per così dire “preventive”, sono nate anche tra le femministe storiche. L’arcilesbica per esempio propone di cancellare il concetto di identità di genere e di rendere esplicito che la nuova legge è coerente con l’attuale normativa che esclude come impossibile l’autocertificazione di genere e vieta il cosiddetto “utero in affitto”. La questione merita di essere approfondita.
È vero che una norma più recente ne può abrogare una precedente di pari livello, ma non mi pare che, almeno in senso strettamente tecnico, il ddl-Zan metta in discussione gli attuali divieti normativi, nel qual caso bisognerebbe ammettere che i detrattori “senza appello” della legge avrebbero una qualche ragione. Credo che le perplessità di alcuni ambienti della sinistra femminista non siano tanto di natura giuridica e non riguardino in particolare la salvaguardia di norme già vigenti. Credo che la loro preoccupazione riguardi il fatto che l’attuale legge possa fare da apri pista a norme più liberalizzanti nel senso inaccettabile di una totale deregulation, dei cui mali abbiamo detto. La cosa può avere un qualche fondamento, ma ha poco a che fare col diritto. Una legge in se non ne prefigura una futura, magari peggiorativa. La battaglia rimane oggi, e penso anche in futuro, una questione di ordine politico e culturale che non si concluderà semplicisticamente sul piano normativo né tanto meno, vogliamo sottolinearlo, nell’ambito delle pure sanzioni penali, come l’asprezza del dibattito attuale, tutto centrato su questioni giuridiche, a volte potrebbe fare pensare.
Fatte queste dovute precisazioni, la proposta di rendere esplicita la coerenza delle norme del ddl-Zan con le attuali restrizioni riguardanti la self identitye la maternità surrogata sono, in linea di principio, ricevibili nella loro logica “cautelare”, anche perché non interferiscono minimamente con il contenuto sostanziale e con le finalità generali della legge. Questo anche a prescindere da quanto ciascuno le possa considerare indispensabili o meno dal punto di vista strettamente giuridico, e senza entrare nel merito dell’esigenza, prospettata da alcuni (ma non da tutti), di arrivare ad una rapida approvazione della legge, prima di un suo possibile affossamento.
Una ultima questione, ma per certi versi di grande rilevanza, riguarda le (enormi) criticità legate all’art. 4. Un articolo che ha tutta l’aria di essere posticcio e del tutto estraneo ai contenuti della legge. Una sorta di concessione fatta ai detrattori. In particolare a coloro che vedevano nel ddl un attacco alla libertà d’espressione. Pensato per tranquillizzarli, e che invece credo sortisca l’effetto contrario.
L’articolo in questione ha come contenuto dichiarato: “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”. Come si può vedere si tratta di questioni di rilevanza costituzionale, e che infatti sono ampiamente contenuti nella nostra Carta Fondamentale, e che è del tutto improprio, anzi sbagliato, che vengano ripresi, anzi parafrasati e “scimmiottati”, in una legge ordinaria. Potrebbe sembrare una semplice ed inutile sottolineatura di principi generali se l’articolo non si concludesse precisando che le suddette libertà sono legittime “… purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
Ora è bene precisare che non solo il senso, ma anche i limiti della libertà d’espressione sono nel loro contenuto oggetto di diritto costituzionale e vengono poi resi efficaci da fattispecie generali di tipo penale, come – per esempio – il reato di “istigazione a delinquere”. Farne menzione in una specifica legge può solo dare il senso di una precisazione con un vago sapore restrittivo: pericolosa in sé (per esempio in una possibile interpretazione giurisprudenziale liberticida) ed assist perfetto per chi vuole liquidare tutto.
Ultima notazione legata a quanto già detto sull’art 4.
Nel successivo art.7, che istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia ecc., allo scopo “di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze…”, credo che il termine “pregiudizi” vada cassato. Io non ho alcun dubbio che tanti pregiudizi limitano oggi la nostra libertà sessuale (e non solo sessuale), ma il termine inserito in una norma giuridica è troppo vago e si presta a qualsivoglia interpretazione. I pregiudizi si sconfiggono nelle piazze e, come già detto, nel dibattito-scontro politico e culturale, e non negli articolati legislativi o nelle aule dei tribunali.