Il sociologo americano Randall Collins ha pubblicato un saggio molto corposo e ben documentato: “La violenza. Un approccio sociologico” (Rubbettino, 2014, 600 pagine, euro 39).

 

Il linguaggio della violenza è utilizzato contro le persone più deboli, a causa della paura della lotta di ogni essere umano, paura che ha avuto una grande valenza evoluzionistica, poiché in passato i conflitti erano quasi sempre una questione di vita o di morte (prima dell’avvento della medicina scientifica per una persona ferita le probabilità di morire erano molto alte).

In genere le persone diventano violente quando riescono a superare “la barriera emotiva della paura dello scontro” e questo avviene quando gli individui, più o meno aggressivi, trovano le condizioni per esercitare la violenza correndo il minimo rischio.

La violenza effettuata a distanza come i bombardamenti: “è il modo più agevole di sprigionare la violenza… colpire, evitando di assistere all’agonia dei nemici. Chiaramente i terroristi che colpiscono volontariamente i civili, comprese le donne e i bambini sono gli individui più spregevoli e più vigliacchi, poiché colpiscono delle persone completamente indifese e a sangue freddo.

Un altro modo per “aggirare la barriera emotiva della paura dello scontro è rappresentato da coloro che, come i cecchini in guerra, sono concentrati più sul loro gesto tecnico che sull’umanità e sulla sofferenza della vittima”. La lotta più o meno violenta legata ai duelli è stata forse l’unica forma di violenza istituzionalizzata esercitata dalle persone più coraggiose.

Quindi le persone più violente sono le persone più vigliacche: “i criminali di professione, ad esempio, imparano alcune tecniche per identificare e poi attaccare le vittime più deboli. In queste situazioni, non domina la possanza fisica dell’attaccante, bensì la debolezza situazionale dell’attaccato” (puntano tutto sull’agguato e sulla paura legata all’effetto sorpresa).

Purtroppo l’uso strategico dell’inganno è il modo più vantaggioso di tutti per aggirare la barriera emotiva: i terroristi suicidi colpiscono vittime inconsapevoli e “l’avvicinamento attraverso l’inganno consente all’adrenalina dell’assassino di fluire con maggiore calma, evitando  di ridurre la sua lucidità”. Quando un gruppo di persone prende di mira una persona isolata, le violenze psicologiche e fisiche tendono a essere più gravi.

Di solito la violenza segue un processo di escalation, contro-escalation e de-escalation. L’alta pressione dell’energia emozionale può alimentare una trance agonistica vincente o può intensificare la nebbia del combattimento, che riduce le qualità e la quantità delle percezioni dei combattenti, con il grande rischio di aumentare i danni collaterali (a cose e persone). L’esito peggiore è la “vacanza morale” (p. 171), quando i militari usano il massimo della violenza contro tutti e tutto e uccidono donne e bambini, e incendiano i villaggi e le città.

Comunque è la provvidenziale “propensione biologica degli esseri umani ad avere forti difficoltà emotive nei confronti degli scontri violenti ad aver dato vita alle tecniche sociali per risolvere il problema. Fortunatamente per il bene dell’umanità, il problema ancora oggi non sembra avere una soluzione” (p. 56). Le istituzioni militari aggirano la predisposizione che limita gli scontri e basta un’esigua minoranza attiva di persone aggressive a livello politico, a livello militare o a livello di piccoli gruppi armati popolari, per accendere le fiamme dell’inferno sulla terra, con una guerra.

 

Randall Collins è un sociologo che segue un approccio eclettico: marxiano, weberiano, interazionista, ecc. Si è specializzato nello studio dei conflitti a livello micro, medio e macro. Attualmente è professore di Sociologia e membro del dipartimento di criminologia all’University of Pennsylvania. Per approfondimenti: http://sociological-eye.blogspot.com.

 

Nota filosofica – Per Hobbes le cause principali dei conflitti sono tre: la competizione, la diffidenza e la gloria. Nel primo caso si lotta per il possesso, nel secondo per la sicurezza, nel terzo per la reputazione.

Appendice bellica – In guerra nella maggior del tempo non si spara: in genere i soldati scavano rifugi nel terreno e discutono; in molti casi urinano o defecano nei propri pantaloni oppure piangono come bambini (testimonianza di un veterano americano del Vietnam). A livello di fanteria solo dal 15 al 25 per cento dei soldati riesce a sparare mirando una persona, a causa della paura di esporsi al fuoco nemico e della responsabilità personale relativa alla morte di un essere umano. Anche per i militari ben addestrati le percentuali di colpi mirati si aggira intorno al 25 per cento. Le unità speciali possono arrivare a vantare un buon 50 per cento di soldati che riescono a sparare ai nemici. Molte unità militari sperimentano il “momento della pazzia”: i soldati iniziano a sparare a raffica senza un obiettivo preciso e alla fine svuotano tutti i caricatori.

In questo caso aumentano le vittime del fuoco amico, cioè i soldati uccisi dal fuoco dei suoi colleghi. “Il fuoco amico e le vittime accidentali sono quindi effetti del carattere alla base delle situazioni di conflitto: tensione e paura, e la conseguente incompetenza” (la fretta è cattiva consigliera). Durante la Seconda guerra mondiale circa il 20 per cento dei soldati morì a causa del fuoco amico e nella prima fase della guerra afgana circa il 60 per cento dei soldati è morto a causa degli incidenti di traffico e del fuoco amico (2001-2002). In genere non si spara per uccidere: sparare è un metodo molto efficace per rilasciare la tensione e superare la paura (Shalit, 1988).

Durante la Seconda guerra mondiale oltre il 50 per cento dei militari americani non si è mai trovato sotto il fuoco nemico, poiché era impegnato nella logistica, nelle retrovie o in zone poco coinvolte dalle battaglie. In Vietnam si è arrivati a circa il 70 per cento dei soldati reclutati che non hanno mai combattuto (sono aumentati i ruoli organizzativi e logistici). Un contingente di cecchini russi ha ucciso una media di solo 8 nemici a testa, durante tutta la durata del conflitto. Nella Guerra di Corea, circa la metà degli aviatori americani non utilizzò le proprie armi e tra chi fece fuoco solo il 10 per cento colpì qualcosa (p. 438). Per ulteriori informazioni: http://acepilots.com.