Mi ha colpito la riflessione, ospitata sulle pagine di Pressenza, nella quale Maria Giovanna Farina, interrogandosi sulla “utopia della pace”, riflette, al tempo stesso, sul senso della pace come «grande progetto utopico», individuando, per un verso, la opportuna e necessaria connessione tra giustizia, pace, fratellanza e nonviolenza e segnalando, per l’altro, l’elemento costitutivo dell’esigenza della pace come «affermazione sull’istinto di morte che ci vuole annientare».
Vi è sicuramente un nucleo nella sua riflessione che non si può eludere ed è il richiamo alla pace come esigenza propria della costruzione umana, in una parola, la dimensione filosofica che è propria della pace. C’è poco da aggiungere, da questo punto di vista, alla riflessione che l’Autrice sviluppa, specie in relazione agli intenti della Rivoluzione Francese, con il suo proclama di Libertà, Eguaglianza e Fratellanza, a sua volta prodotto della stagione storico-culturale dei Lumi, dei fermenti dell’Illuminismo ma anche dell’affermazione delle prime istanze di “soggettivazione” degli attori sociali, un fenomeno che la cosiddetta età borghese avrebbe spinto in avanti, nella stagione della fase espansiva o rivoluzionaria della borghesia europea, fino alla metà e oltre del XIX secolo. E non è un caso che, nello sviluppare questa riflessione, si affacci sin dall’inizio l’allusione al marxismo quando l’Autrice, appunto, pur senza parlare nello specifico «dell’esperienza marxista», vi fa un cenno, introducendo il tema saliente, grande e promettente, della «uguaglianza tra gli uomini».
L’unica aggiunta che si potrebbe, a questa altezza, innestare su tali considerazioni, è il riferimento ad alcuni altri grandi autori della storia del pensiero occidentale che, con il tema e problema della pace, si sono, a più riprese, confrontati. Kant, in primo luogo, del quale è ben nota la riflessione inerente al Progetto per una Pace Perpetua (1795). Ha scritto, a tal proposito, Antonio Gargano: «I progetti di pace, a partire da Erasmo da Rotterdam, scorgono prevalentemente cause psicologiche delle guerre come l’aggressività o la mania di espansione dei sovrani, e quindi, quasi sempre, culminano in un appello ai prìncipi. Kant, invece, ha completamente laicizzato e modernizzato la diagnosi della situazione di guerra: questa non dipende dal vizio, dal male, da cattiva inclinazione psicologica, ma è dovuta a cause iscritte nella struttura sociale; è la struttura sociale dell’Ancien Régime, dell’assolutismo, a essere matrice inesauribile di guerre. Kant sposta la diagnosi dalla cattiva inclinazione dell’uomo, dallo spirito di aggressività dei prìncipi, a qualcosa che invece si annida all’interno della società stessa. Il suo libro parte da basi nuove, risente molto delle speranze della Rivoluzione Francese».
Alla Rivoluzione Francese si torna, dunque, e dalla Rivoluzione Francese si riparte, se è vero che una disamina anche di ordine politico-culturale e, in un ultima analisi, filosofica, della cosiddetta “utopia della pace”, non possa ritenersi completa senza riempire quel riferimento a Marx (e non solo a lui) che altrimenti rischierebbe di sembrare irrisolto. Anche qui, come è noto, il nesso tra struttura (e composizione) sociale, rapporti (sociali e politici) di potere fondati sui rapporti (economici e sociali) di produzione, e il nesso tra (vettori della) struttura e (agenti della) sovra-struttura costituiscono le condizioni e i fattori della guerra e della pace. È un altro filosofo del nostro tempo, Domenico Losurdo, a ricordare la connessione inestricabile, tipica di Marx e dell’intero pensiero marxista, tra le questioni della pace e della emancipazione: «L’universalismo mette in discussione da un lato l’assoggettamento coloniale e la schiavitù o semi-schiavitù coloniale e dall’altro l’idea per cui le «razze superiori» sarebbero destinate a dominare quelle «inferiori» e i popoli di cultura «superiore» sarebbero chiamati a dettar legge a quelli di cultura «inferiore». È in questo contesto politico-ideologico che l’idea universalistica di un mondo senza guerre può ispirare un movimento di massa».
Non solo: «Nelle colonie, dove un intero popolo è assoggettato, privato della terra, deportato e spesso decimato, la «questione sociale» si presenta come «questione nazionale» (ovvero la lotta di classe tende a configurarsi al tempo stesso come lotta nazionale). L’osservazione è di Marx, il quale osserva: «La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude», come dimostra in particolare il ricorso contro i nativi a pratiche genocide. La lotta degli «schiavi delle colonie» è una grande lotta di classe e, al tempo stesso, una lotta per la pace e contro le forme più brutali di guerra e di violenza». Se, spesso, difficile da individuare negli effetti concreti che è in grado di determinare o di realizzare (da cui la famosa, retorica e insidiosa, domanda: dove sono i pacifisti? ripetuta ad ogni piè sospinto ogni volta che si scatena un conflitto armato in qualche angolo del pianeta o quando ad una grossa violazione dei diritti umani non si riesce a reagire con un’adeguata mobilitazione di massa), è invece piuttosto facile rintracciare la concretezza della pace nella dinamica delle lotte sociali che puntano all’ampliamento del perimetro dei diritti, all’estensione dell’area dell’emancipazione e dell’uguaglianza, alla ricerca di soluzioni creative e costruttive per la risoluzione o il trascendimento dei conflitti. La concretezza della pace, come vettore sociale e funzione politica, quindi come tema politico tout court, è propriamente nel nesso tra emancipazione, autodeterminazione e inclusione.
Vi è oramai un’ampia letteratura di conflitti alla cui risoluzione le forze della pace, con il proprio impegno costruttivo, con l’individuazione di mediazioni e soluzioni creative, con la creazione di più avanzate condizioni politiche per il cessate-il-fuoco o il negoziato, hanno saputo dare un contributo concreto, efficace. Anche gli strumenti della pace sono diventati più mirati e più incisivi, come dimostra l’esperienza dei Corpi Civili di Pace, come strumenti di «azione civile, non-armata e nonviolenta di operatori professionali e volontari che come terze parti – su richiesta leggibile della società civile locale – sostengono gli attori locali nella prevenzione e trasformazione dei conflitti. L’obiettivo degli interventi è la promozione di una pace positiva, intesa come cessazione della violenza ma anche affermazione di diritti umani e benessere sociale».
Ultima solo in ordine di tempo, la campagna che ha portato al Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN) è stata una campagna promossa dalle organizzazioni sociali e, in primo luogo, dai movimenti per la pace, contro la guerra, anti-nuclearisti e disarmisti: si tratta del primo trattato internazionale legalmente vincolante per la proibizione delle armi nucleari e, in prospettiva, la completa eliminazione. Ratificato da 51 Stati, entrerà in vigore il prossimo 22 Gennaio.