Anche quest’anno Vittorio Agnoletto ha seguito il Festival del Cinema di Locarno per noi; pubblichiamo le sue cronache in quattro puntate, ecco la seconda.
Il tempo delle donne
Exit, prodotto tra Taiwan e Hong kong, opera prima del regista Chienn Hsiang, è un film delicato, recitato molto bene e che si sviluppa su piani differenti seppure fra loro inestricabili.
Ling, una donna di quarantacinque anni con il marito e la figlia lontani da casa, deve prendersi cura della suocera ricoverata in ospedale. Un’esistenza solitaria, ed infelice, resa ancor più malinconica dall’inatteso manifestarsi della menopausa, sprofonda ulteriormente quando sopravviene il licenziamento. In ospedale, in un letto vicino a quello dov’è ricoverata la suocera, giace, incosciente, un giovane uomo gravemente ferito agli occhi; con questo corpo maschile malato Ling proverà a ritrovare un senso per la propria vita.
Sullo sfondo di una difficile situazione economica, lo spazio è totalmente occupato dall’universo di una figura femminile di mezza età con tutte le sue contraddizioni, rintracciabili ad ogni latitudine e in ogni ceto sociale: il senso di vuoto che subentra con l’allontanarsi dei figli ed il venir meno dell’accudimento quotidiano al marito, funzioni alle quali spesso è stata dedicata gran parte della propria esistenza; la difficoltà a ridefinirsi partendo da sé, dalla riscoperta di una propria identità individuale svincolata dallo specchio famigliare; il timore per aver perso la propria femminilità identificata nella funzione riproduttiva e la concomitante paura di lasciarsi andare alla ricerca di nuove emozioni imparando a prendersi cura di se stessa. Percorsi tutt’altro che lineari: in un rapporto ove la parola e lo sguardo sono sostituiti dal monotono messaggio delle segreterie telefoniche dei cellulari, le preoccupazioni per la figlia diventano alibi per giustificare a se stessa la rinuncia ad una propria felicità.
L’unico percorso possibile sembra essere la riproposizione di una relazione con qualcuno destinato, oggettivamente a dipendere da lei, impossibilitato a fuggire. Ma la dedizione non compra un pegno d’amore; l’oggetto delle proprie cure, proprio perché di oggetto non si tratta, si riserva il diritto alla libertà dei propri sentimenti.
Il rapporto di forza che dovrebbe garantire a Ling una relazione si mostra inevitabilmente parte integrante della propria debolezza esistenziale. La propria casa diventa la sua prigione, non sembra esserci uscita, e quando la porta finalmente cede tutt’attorno c’è il silenzio ed il vuoto.
Sils Maria. I conti con l’età che passa deve farli anche Maria Enders che a 18 anni ha ottenuto un grande successo teatrale interpretando Sigrid una giovane e ambiziosa ragazza che conduce al suicidio Helene, una donna più matura. Maria ora deve interpretare, nello stesso lavoro teatrale, proprio Helene.
Nel film Sils Maria del regista Olivier Assayas, nella parte di Maria Enders vi è Juliette Binoche con un’interpretazione veramente eccezionale; l’entusiasta accoglienza del pubblico di Locarno non può essere semplicemente interpretata come un omaggio ai luoghi dove si svolge il film, la bellissima valle Engadina nel cuore della Svizzera.
La difficoltà ad accettare il trascorrere delle proprie stagioni s’intreccia con un complesso rapporto con il potere: sul palcoscenico Sigrid è la vincente e Helena la perdente; difficile accettare che il potere ti sfugga dalle mani, o peggio ancora cederlo coscientemente.
Il vaso di Pandora del nostro corpo
A differenza degli scorsi anni i temi del disagio e della sofferenza, non hanno auto grande spazio nella 67° edizione del festival di Locarno.
Hin und weg. (Tour de force). Christian Zubert ha portato in piazza Grande, senza provocare alcuno scandalo, un film su un tema che in Italia è tutt’ora all’indice: l’eutanasia.
Hannes, un giovane tedesco, invita i suoi amici ad una vacanza in bicicletta per raggiungere il Belgio, e solo durante il viaggio comunicherà loro la sua ultima destinazione: è affetto da una malattia incurabile, per la quale è già deceduto suo padre, e vuole raggiungere il Belgio dove ha fissato l’appuntamento con un medico che gli praticherà l’eutanasia.
Il film racconta le reazioni degli amici di fronte a tale scioccante rivelazione, senza che la scelta di Hannes sia rimessa in discussione o sottoposta ad un serrato confronto.
Ed è questo l’aspetto che ha suscitato forte indignazione tra non pochi dei giornalisti italiani presenti al festival: la decisione del giovane tedesco – sostengono i critici – andava problematizzata e, possibilmente, smontata.
Il regista, in linea con una cultura ampiamente diffusa nei Paesi del nord Europa, sembra ritenere molto semplicemente che la scelta sulla propria vita appartenga alla sfera individuale e razionale di ogni individuo adulto che è depositario della decisione finale sul proprio destino, lì dove questa è possibile. D’altra parte, considerato che ognuno di noi convive con altri esseri umani, è importante valutare quale impatto abbiano le proprie scelte su chi ci circonda cercando di ridurre al minimo le sofferenze.
E’ questo il tema di un film che, pur senza avere particolari meriti cinematografici, ha osato esplorare un tema complesso e certamente non popolare. Un film che non sarà facile, temo, vedere in Italia attraverso la grande distribuzione.
Marie Heurtin. In piazza Grande è stato presentato Marie Heurtin del regista Jean – Pierre Amèris basato su una storia vera avvenuta nel tardo ottocento. Il padre, un umile artigiano si rifiuta di rinchiudere in manicomio Maria,sua figlia, una giovane ragazza quattordicenne, sorda e cieca,che viene affidata invece all’Istituto Larnay, vicino a Potiers dove le suore si prendono cura di giovani donne sorde e dove Maria, dopo alterne vicissitudini, trova le sue modalità per comunicare con l’esterno e rompere l’oscurità che ha segnato la sua vita.
Un film forse un po’troppo facile nel suscitare commozione, ma con una grande interpretazione di Ariana Rivoire,una giovane attrice sorda e muta.
Una copia di questa pellicola andrebbe regalata a Stefania Giannini, la nostra attuale ministra dell’Istruzione e a quelli che l’hanno preceduta per mostrare loro l’importanza della continuità didattica degli insegnati di sostengo per i ragazzi disabili.