Vi si fa riferimento nei termini di un populismo «gentile», nell’esempio che ha portato, tra gli altri, Massimo D’Alema a sostegno della tesi politica della stabilizzazione dell’accordo tra PD e M5S, forze portanti, oggi, del Governo Conte bis e forse protagoniste, un domani, di una rinnovata opzione di centrosinistra.
Ma non passa giorno che altre voci della stessa maggioranza evochino invece il populismo, sempre del M5S, come uno spauracchio o un limite all’azione cosiddetta riformista dello stesso governo e dello stesso campo largo del centrosinistra. Vi si allude, non di meno, nei termini di un populismo «aggressivo», nei riferimenti (che si moltiplicano) alle forze che occupano la destra dell’arco parlamentare, rimarcando il carattere oltranzista, nazionalitario, reazionario che contraddistingue il linguaggio e la proposta politica della Lega. Ed anche in questo caso, la gamma delle colorazioni politiche del lemma non cessa di sorprendere, accomunando a quella di populismo le categorie di sovranismo, nazionalismo e plebiscitarismo.
Tra queste e molte altre riflessioni e configurazioni può aiutare a fare ordine il bel libro di Alberto Lucarelli, Populismi e rappresentanza democratica, recentissima pubblicazione, per i tipi della Editoriale Scientifica (Napoli, 2020), che ha il duplice pregio di aiutare a chiarire i termini della questione e fornire elementi di orientamento non indifferenti al linguaggio e alle forme della politica. L’autore, Alberto Lucarelli, è del resto, figura di spessore, in costante dialogo tra accademia (è ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli Federico II e componente del Direttivo Nazionale dell’Associazione Italiana Costituzionalisti) e politica (è stato Assessore ai Beni Comuni e alla Democrazia Partecipativa del Comune di Napoli ed è oggi vice-presidente del Comitato Popolare per la Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”).
Inevitabile quindi che il libro non solo ospiti una profonda e analitica riflessione giuridica sulle categorie dei beni pubblici e comuni e, soprattutto, sullo spazio della democrazia e le forme della rappresentanza, configurandosi, sotto tale versante, per una lucida e documentata analisi sulla consistenza e sulla crisi delle forme classiche della rappresentanza democratica, ma indichi anche delle piste di ricerca e delle proposte di avanzamento, alternando analisi e proposta e ponendo una serie di interrogativi circa le questioni dell’attualità e della rigenerazione della partecipazione e della democrazia.
La riflessione di carattere storico, sulla genesi e la fenomenologia del populismo, pur non rappresentando il cuore dell’indagine, non è dimenticata sullo sfondo: se l’attuale voga populistica assume forme e segnali nuovi, maturando in primo – ma non esclusivo – luogo come effetto tra gli altri della crisi delle forme consolidate della rappresentanza, della crisi dei partiti politici e della crisi della democrazia rappresentativa, non manca una puntualizzazione sull’origine del populismo tout court, come fenomeno che, nato insieme con la formazione dello Stato moderno, esprime la rivendicazione spontanea di dignità e diritti da parte di un popolo oppresso, oggettivo e invisibile, di fronte al potere sostanzialmente sconfinato del monarca assoluto. È questa la veste di cui è ammantata l’origine del fenomeno populista, in primo luogo come fenomeno “orientale”, ma che poi attraversa, nel corso del lungo secolo breve, tre continenti, dall’Asia all’Europa fino all’America Settentrionale e all’America Latina dove finirà addirittura per assumere delle caratteristiche paradigmatiche.
Nel tempo del potere assoluto del sovrano, nella proto-storia dei diritti collettivi e della soggettivazione politica delle masse, nelle latitudini inesorabili delle vaste popolazioni contadine, il populismo incarnava la voce dell’oppresso e le rivendicazioni delle masse, senza potere, tuttavia, né indicarne la traiettoria né prospettarne la direzione. Come ricorda Bruno Bongiovanni «l’esaltazione del popolo, racchiuso in una sorta di fissismo sociale che predisponeva forme di resistenza contro l’invadenza traumatizzante della storia, nonché erede e depositario della forma organica ed armonica della convivenza, richiedeva tuttavia la predicazione, o anche l’agitazione rivoluzionaria introdotta dall’esterno, da parte di un ceto sociale largamente presente in Russia, non di rado privo di un’occupazione stabile, spesso frustrato e psicologicamente attratto-respinto dall’Occidente, vale a dire l’intelligencija.
Il popolo contadino, infatti, in ragione dell’oppressione che subiva e delle condizioni miserevoli in cui, anche sul piano spirituale, si trovava, era comunista e non sapeva di essere tale». Nel tempo grande dell’irruzione delle masse a protagoniste della storia, essenzialmente nel Novecento e dopo la scaturigine storico-politica del grande evento che fu la Rivoluzione d’Ottobre, in Russia, i termini della questione populista sarebbero stati significativamente alterati: non più le sterminate e anonime masse omogenee e contadine, ma masse popolari sempre più e sempre meglio organizzate; non più una traiettoria inerte o una direzione imperscrutabile, bensì il primato dell’azione politica e l’esercizio della direzione, del consenso, dell’egemonia.
Il populismo non può più essere l’espressione spontanea della massa sterminata in cerca di riconoscimento, soggettivazione, dignità; il populismo sempre più consistentemente si afferma come manipolazione demagogica, sorretta da una strumentazione politica sempre più sofisticata e articolata. Nel corso del Novecento se ne affermano i tratti anche nel Nord e soprattutto nel Sud del continente americano, dove, non a caso, manifesta tutta la sua ambivalenza: da un lato teso all’esercizio autoritario della direzione politica, dall’altro incline ad una sorta di compattamento sociale per il tramite di un sistema di sussidi e tutele sociali più ampio ed esteso. Non si tratta di un sistema articolato e funzionale di protezione sociale né tantomeno di alcuna associazione effettiva delle masse al potere: il populismo, nelle fasi espansive di una congiuntura positiva, alimenta il carattere unitario ed univoco del consenso, rafforza il legame diretto tra il capo e le masse in un’azione di sistematica semplificazione e disintermediazione del quadro pubblico, esalta la figura del capo, la sua propensione paternalistica, la sua rappresentazione dispotica.
Come bene richiama, ancora, Bongiovanni, «la conclamata e sempre osannata supremazia della volontà popolare, sintesi del raggrumarsi poli-classistico di segmenti diversi di una realtà prevalentemente urbana, e la fascinazione plebiscitaristica diventarono così il cuore e il nerbo dello sfondo ideologico e politico del populismo latino-americano». Echi di questa configurazione si riverberano inevitabilmente nel presente proprio perché attengono alla datità intrinseca del fenomeno populista nelle sue diverse accezioni: il riferimento a un popolo generico e indistinto, idealizzato e astratto, obliterandone completamente e sistematicamente la composizione sociale; la semplificazione estrema, se non la vera e propria banalizzazione, non solo della rappresentazione politica ma anche dello stesso lessico della politica; la focalizzazione del discorso pubblico intorno alla figura e all’azione del “capo” politico.
Tutte le accezioni della cosiddetta «variante populista» sono attraversate da queste caratteristiche e da queste pulsioni: ora, il populismo che si è definito «gentile» e che potrebbe, più precisamente, essere identificato come populismo comunitario, sensibile alle diseguaglianze sociali, ostile agli eccessi del capitalismo nelle sue diverse manifestazioni, incline alle questioni della solidarietà, dell’inclusione e della convivenza; ora, il populismo che si è evocato come «aggressivo» o, per meglio dire, populismo identitario, oggi declinato nei termini del moderno nazionalismo popolare o del sovranismo, della reazione identitaria, delle comunità chiuse e delle piccole patrie, della competizione radicale e della diffidenza sociale, finanche con marcati tratti isolazionisti e xenofobi.
La disamina che sviluppa la ricerca di Lucarelli è molto attenta a indicare le differenze e prospettare il giusto inquadramento delle questioni: analizza, piuttosto che giudicare; riflette, anziché escludere; e con questo indirizzo è in grado di individuare alcune tendenze che, pure interne alle moderne modalità di espressione della variante comunitaria del populismo, lanciano tuttavia una sfida che è necessario raccogliere al fine di aggiornare, per un verso, e arricchire, per l’altro, la cosiddetta «funzionalità democratica». In uno dei passaggi-chiave del libro, ripreso anche da Silvio Gambino, «in linea di principio, la democrazia del pubblico non si oppone alla rappresentanza, ma piuttosto alle sue patologie di funzionamento e al concetto che la sovranità popolare non possa esaurirsi nei meccanismi e nella procedura della delega» laddove, in particolare, il “populismo democratico” «almeno nei suoi aspetti fisiologici, non è radicale e tende a trovare una sintesi tra le differenti dimensioni della democrazia, esprimendo esigenze di politica attiva, diffusa e partecipata. Un fenomeno che ha quale obiettivo l’effettiva attuazione della Costituzione».
Si è detto più volte, a tal proposito, di una lettura, al tempo stesso, costituzionalmente fondata e costituzionalmente orientata, nell’analisi della questione democratica e della crisi della rappresentanza. È questo infatti il terreno di sfida che l’odierna insorgenza populista propone e che l’analisi di Lucarelli ha il merito di ribadire: da un lato, il populismo, nelle sue odierne varianti, come espressione o manifestazione di esclusione dei corpi sociali e di degenerazione della rappresentanza istituzionale (e, più complessivamente, della odierna crisi della rappresentanza democratica, in diversi Paesi, tra cui l’Italia, tra l’altro, ormai più che ventennale); dall’altro, la democrazia, come formazione irriducibile alle regole del gioco e all’esercizio della delega, come capacità progressiva di promuovere diritti e inclusione e di facilitare una sempre più solida associazione delle masse popolari e delle loro specifiche composizioni sociali all’esercizio effettivo della direzione politica.
Posta in questi termini, l’analisi che l’Autore conduce ha il merito di segnalare con chiarezza i termini della questione e, al tempo stesso, di consentire una ulteriore riflessione, anche «al di fuori del testo»: che la democrazia non è un insieme di rituali e procedure formali, ma un contesto di pratiche materiali; che la pluralità e la dinamicità delle forme democratiche, anche nei termini più generali della inclusione e della convivenza, non possono generarsi né tanto meno affermarsi in assenza di dinamica sociale e di conflitto sociale; che proprio la crisi della rappresentanza impone la ricerca di prassi più mature e articolate di rappresentazione democratica, nel senso della democrazia materiale, della democrazia sociale, della partecipazione democratica. Una prospettiva all’interno della quale i soggetti sociali e le articolazioni politiche, nelle forme plurali delle rappresentanze, diventano cruciali. Come si vede, tutto il contrario della banalizzazione propria della risposta populista.