Fino a pochi mesi fa gli esperti avevano espresso preoccupazione per l’espansione dell’attuale coronavirus in Africa, pensando al peggio. Ma sembrerebbe che nel continente la pandemia non abbia causato la grave crisi sanitaria che ci si aspettava. Infatti, i contagi sono pochi e la mortalità è bassissima. Alla luce di questo fatto, la Covid-19 può essere ancora vista come una malattia universale?
A meno di un anno, il virus si è diffuso in tutto il mondo, eppure la stragrande maggioranza dei decessi è avvenuta nei paesi sviluppati. Come riporta un brillante articolo della rivista medica The Lancet, questo si tratta di un dato contrario all’immaginario occidentale. Spesso vediamo il Sud del mondo come «un enorme serbatoio di pestilenze» che vengono definite “malattie tropicali”, contrapposte alle malattie del primo mondo che invece consideriamo universali.
Ma oggi assistiamo a un’eccezione storica: i paesi sviluppati sono stati messi in ginocchio da un virus che altrove, Africa in primis, ha causato meno morti e ha contagiato relativamente meno persone. Basti pensare che il Sudafrica, il paese africano più colpito dalla pandemia, ha un tasso di mortalità sette volte inferiore a quello del Regno Unito. Ma quali sono i motivi di questa differenza?
Le cause sono molteplici e in parte dipendono dalla demografia di molti Stati africani. Tipicamente hanno una popolazione giovane e i pochi anziani vivono con il resto della famiglia, evitando così il grande numero di contagi registratosi nelle case per anziani europee. Un altro fattore è sicuramente l’esperienza consolidata nella gestione di altre malattie infettive come l’HIV e l’ebola.
Nonostante questo dato positivo, come vedremo, la pandemia in Africa sta avendo delle conseguenze nefaste, sia a livello sanitario, che economico-sociale.
Imitare i paesi ricchi: gli effetti della lotta contro il coronavirus in Africa
Nonostante alcune esperienze virtuose, le misure attuate in molti stati africani spesso si sono dimostrate inadatte al contesto. Molti governi africani hanno cercato di emulare alcune strategie adottate in Occidente, imponendo lockdown nazionali e concentrandosi sul proprio sistema sanitario. Tuttavia, queste risposte al coronavirus si sono rivelate inefficaci e hanno comportato persino un aumento indiretto del numero di decessi.
Se consideriamo la densità abitativa delle baraccopoli, dove centinaia di migliaia di persone vivono estremamente ravvicinate e in pessime condizioni sanitarie, i lockdown diventano uno strumento inutile. Basti pensare alla slum di Kibera, in Kenya, con una popolazione di un milione di abitanti. È chiaro che il distanziamento sociale è del tutto impossibile.
Ma il vero problema sembra essere un altro: un fenomeno allarmante è stata la maggiore difficoltà nell’accesso al sistema sanitario. Infatti, conseguentemente ai lockdown, in molti paesi a basso reddito c’è stata una riduzione delle cure per altre malattie e dunque un aumento delle morti non dovute alla Covid-19. Anche il numero di vaccinazioni è calato drasticamente, così come gli interventi d’urgenza.
Tuttavia, l’aspetto più preoccupante riguarda l’ambito della giustizia sociale e dell’equità: infatti, la Covid-19 ha peggiorato le disuguaglianze interne di molti paesi. Al mondo si stima che circa 2 miliardi di persone vivano grazie all’economia informale e di queste, il 90% vive in un paese in via di sviluppo. Perciò, le chiusure e le limitazioni rischiano di causare un aumento vertiginoso della povertà e una caduta dei livelli della qualità di vita.
A ciò si unisce il pericolo dell’insicurezza alimentare, un’emergenza che potrebbe ripresentarsi a causa della recessione economica. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), la Covid-19 potrebbe contrarre il PIL delle nazioni africane dell’1,4%, arrivando al 7,8% per le economie più piccole. L’Africa dipende in larga parte dalle importazioni di prodotti alimentari (l’85% nel periodo 2016-2018) e il coronavirus, ostacolando il commercio, ha causato l’aumento dei prezzi, soprattutto quello dei cereali. Inoltre, cronicamente il continente soffre carenze strutturali nel settore agricolo, spesso legate all’attività delle imprese multinazionali. A ciò si aggiungono gli effetti del cambiamento climatico e la recente invasione di locuste che ha colpito il Corno d’Africa. Per il 2020 risulta così uno scenario drammatico che potrà causare un grave peggioramento della malnutrizione nel continente.
I lockdown e le derive autoritarie
Con l’avvento del coronavirus, in Africa si è assistito a un aumento dell’autoritarismo delle forze di polizia. Una tendenza sottovalutata, sempre più presente a causa dell’introduzione delle limitazioni anti-Covid-19.
In Kenya, Sudafrica e Nigeria – dove a ottobre nel frattempo erano esplose le proteste contro la brutalità del corpo di polizia SARS – le violenze e i soprusi della polizia nei confronti dei civili sono aumentati notevolmente in seguito all’imposizione di chiusure totali.
Nelle prime settimane di coprifuoco notturno, in Kenya almeno sei persone sono state uccise dalla polizia tra cui un ragazzo di 13 anni. Human Rights Watch ha dichiarato che ci sono stati episodi in cui la polizia ha fatto irruzione nelle case per estorcere denaro ai residenti. Gli agenti hanno picchiato le persone che stavano tornando a casa prima dell’inizio del coprifuoco, talvolta sparando senza alcuna giustificazione apparente.
Il coronavirus ha causato anche un’ondata di instabilità politica e ha contribuito all’esacerbarsi di tensioni etniche e separatiste preesistenti. È il caso dell’Etiopia, dove la decisione del governo di sospendere le elezioni in tutto il paese ha portato all’accensione di nuove violenze.
Infatti, il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali – insignito del premio Nobel per la Pace nell’ottobre 2019 – ha deciso di rinviare le elezioni regionali a causa della pandemia di Covid-19. Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (FPLT), partito nazionalista di ispirazione marxista, ha ignorato il divieto e ha organizzato autonomamente le proprie elezioni. Addis Abeba ha dichiarato illegale il risultato del voto, provocando l’attacco delle forze dell’FPLT alle caserme dei soldati presenti nella regione. Ne è scaturita una sanguinosa guerra civile che rischia di minare la stabilità politica del Corno d’Africa, nonché una grave crisi umanitaria che ha già causato migliaia di morti e profughi.
È evidente come le derive autoritarie e l’implementazione di misure forti e antidemocratiche in nome dell’emergenza sanitaria rappresentino un pericolo reale. Il risultato è la discesa verso nuove spirali di instabilità politica e violenza nel continente africano.
La gestione della pandemia in Senegal e Ruanda
In questo scenario difficile, alcuni stati africani hanno messo in atto delle strategie altamente performanti contro la Covid-19, elogiate dagli osservatori internazionali.
Secondo uno studio del Foreign Policy, il Senegal è al secondo posto per la migliore risposta al coronavirus dopo la Nuova Zelanda. Per il paese si tratta di un risultato eccellente che va contro ogni previsione, tenendo conto della fragilità del sistema sanitario senegalese. Dal 2 marzo 2020, quando in Senegal si è avuto il primo caso, le misure adottate dal governo del presidente Macky Sall hanno costituito un’ottima reazione, forti dell’esperienza dell’epidemia di ebola del 2014.
Alcune delle soluzioni di Dakar sono state la fornitura di test rapidi con risultati entro 24 ore, il riutilizzo degli hotel per la quarantena e la messa a disposizione di gel igienizzanti e lavabi nei luoghi pubblici. Inoltre, la sensibilizzazione e il coinvolgimento diretto della popolazione, oltre ad alcune limitazioni della mobilità, hanno permesso di limitare i contagi.
Proprio le strategie di comunicazione sono state decisive. Ad aprile, i migliori musicisti senegalesi si sono riuniti per incidere “Daan Corona” (“sconfiggiamo il corona” in lingua wolof), un brano per sensibilizzare i senegalesi a seguire le misure preventive. Anche alcune figure religiose di spicco della confraternita islamica Mourid, molto seguita nel paese, hanno aderito alla campagna di prevenzione, raccomandando l’uso della mascherina. Infine, non sono mancati i murales e i cartelloni che ricordano ai passanti le regole igieniche da seguire.
Finora, il Senegal ha registrato 17.000 casi totali e 349 decessi su una popolazione di quasi 17 milioni di persone. Tuttavia, le conseguenze derivanti dalla pandemia espongono il paese a un futuro incerto. Le perdite nel turismo, il calo delle rimesse degli emigrati e la dipendenza dall’economia informale di molti senegalesi potrebbero portare a serie ripercussioni economiche.
Il Ruanda invece, si è concentrato sullo scrupoloso tracciamento dei contagi e l’esecuzione di test a tappeto. Ad ogni modo, la strategia vincente è stata sicuramente la reazione immediata di Kigali: prima che venisse registrato il suo primo caso, il governo ruandese ha formato un comitato nazionale di crisi e una task force per coordinare la preparazione all’arrivo della pandemia.
Le autorità sanitarie si sono rivolte anche all’utilizzo dell’intelligenza artificiale e di altre soluzioni tecnologiche per fermare la diffusione del virus. Si tratta di una risposta completamente in linea con le capacità del paese: infatti, negli ultimi anni il Ruanda si è indirizzato verso il settore tecnologico, promuovendo la digitalizzazione e la creazione di alcune giovani startup (si pensi all’ideazione del primo smartphone completamente made in Africa da parte del Gruppo Mara di Kigali).
In occasione della pandemia, il governo ruandese ha impiegato dei droni per sensibilizzare la popolazione nei quartieri densamente abitati e inaccessibili agli operatori sanitari, diffondendo messaggi radio/TV su come comportarsi per contrastare il virus. Inoltre, i droni dotati di telecamere hanno permesso alle autorità ruandesi di monitorare le aree più lontane, in modo da identificarle e intervenire velocemente.
Infine, nei centri di cura per il coronavirus sono stati introdotti alcuni robot per controllare la temperatura, monitorare lo stato dei pazienti e tenere registri medici, in modo da minimizzare il rischio di contagi.
Strategie anti-coronavirus che guardino al contesto africano
In conclusione, i governi dei paesi africani dovrebbero puntare a un approccio comunitario, compatibile con la demografia unica del continente, che trovi l’approvazione e la partecipazione attiva della società. Anche una comunicazione capillare ed efficace si è dimostrata una soluzione vincente. Se necessarie, le restrizioni dovrebbero essere applicate ad aree circoscritte, individuate grazie al tracciamento dei contatti. In breve, è necessario che l’Africa faccia affidamento sulle sue competenze e risorse per affrontare la pandemia, tenendo conto delle sue carenze nel settore sanitario.
Ogni regione del globo ha caratteristiche e bisogni specifici. Le esperienze dei paesi presi in analisi insegnano che per affrontare al meglio l’emergenza sanitaria, l’Africa deve considerare le sue peculiarità. Ignorarle significherebbe condannare milioni di persone alla fame e alla povertà, nonché destabilizzare ulteriormente fragili contesti regionali attraversati da tensioni latenti.
Massimiliano Marra