Si era appena fatto in tempo, nel precedente articolo, a richiamare la caotica turbolenza politico-istituzionale che sta agitando il panorama kosovaro degli ultimi mesi, in ballo tra delicati equilibri parlamentari e apertura del processo all’Aja a carico di Hashim Thaçi per crimini di guerra, che giunge fulminea la notizia della decisione della Corte Costituzionale del Kosovo la quale, lo scorso 21 dicembre, ha dichiarato illegittimo l’insediamento del governo attualmente in carica, che vede come primo ministro Avdullah Hoti, della Lega Democratica del Kosovo (LDK), e, contestualmente, ha invitato il (la) presidente della “Repubblica”, peraltro presidente ad interim, dopo le dimissioni dello stesso Thaçi, nella persona di Vjosa Osmani, ad indire elezioni anticipate.
Già la dinamica della situazione può servire a rendere visibili il caos che governa, in questo momento, a Prishtina: in una situazione di contesto, peraltro, già resa particolarmente grave, nel pieno della diffusione della pandemia da coronavirus, con una situazione interna, sia a livello sanitario sia a livello socio-economico, di estrema delicatezza, e alle prese con una fase del dialogo per la normalizzazione delle relazioni, che coinvolge la Serbia e il Kosovo, sotto la mediazione e la facilitazione dell’Unione Europea, che pare avere raggiunto, nelle ultime settimane, una delle sue stagioni più fiacche e deludenti. Dunque, ricapitolando, lo scorso 21 dicembre, la Corte Costituzionale del Kosovo ha stabilito la illegittimità del gabinetto Hoti in quanto l’elezione del capo del governo, Avdullah Hoti, è avvenuta con palese irregolarità, dal momento che ha registrato una maggioranza di appena un voto (61 voti favorevoli sui 120 seggi di cui si compone l’Assemblea del Kosovo) in una seduta in cui uno di questi voti è stato espresso da un deputato con sentenza penale definitiva. Il parlamentare, Etem Arifi, è stato infatti condannato a un anno e tre mesi di reclusione per frode, con sentenza definitiva risalente al settembre del 2019; ebbene, la Costituzione del Kosovo stabilisce (art. 70) che il mandato di un parlamentare cessa quando condannato, in via definitiva, a uno o più anni di carcere; d’altra parte, la Commissione Elettorale Centrale non era stata raggiunta, secondo quanto si apprende dagli organi di informazione, dalla comunicazione circa la sentenza che aveva riguardato lo stesso Arifi prima delle elezioni politiche tenute nell’ottobre 2019. Insomma, una circostanza particolarmente singolare, sulla quale ulteriori riflessioni e commenti potrebbero portare lontano, sia in relazione al “quadro” delle élite politiche della regione, sia in relazione al contesto più generale, al tempo stesso, di sfiducia e di confusione, che sembra avvolgere, in questa fase, lo scenario politico kosovaro.
Adesso, sempre in base alla Costituzione, nel momento in cui la Corte ha stabilito che Hoti non ha avuto i voti sufficienti dell’Assemblea per potersi insediare e, di conseguenza, che la situazione è attualmente di illegittimità costituzionale, la presidente ad interim è stata invitata a fissare una data per elezioni anticipate che dovranno tenersi entro e non oltre 40 giorni; intanto, il governo resterà in carica, praticamente per il disbrigo degli affari correnti, finché il parlamento non ne eleggerà uno nuovo, dovendo tuttavia essere un nuovo parlamento, quindi dopo nuove consultazioni, a provvedere all’elezione, dal momento che la composizione dell’Assemblea, come si dice, non è perfetta, essendo allo stato costituita non da 120, bensì da 119 deputati e deputate regolarmente eletti e insediati.
Già oggi, 22 dicembre, la presidente ad interim, Vjosa Osmani, ha convocato i partiti per avviare le consultazioni in ordine alla definizione dell’iter per nuove elezioni, delle quali il principale partito di opposizione, Vetëvendosje (Auto-determinazione), lo stesso che aveva peraltro avanzato la denuncia da cui è partito il procedimento che ha portato alla sentenza della Corte Costituzionale, si annuncia, senza dubbio, come favorito, con l’LDK che vede il suo premier (Hoti) “decaduto”, e l’altro principale partito, il Partito Democratico del Kosovo (PDK), che ha il proprio leader (Thaçi) imputato di crimini di guerra all’Aja.
Lo scorso 5 novembre, infatti, Hashim Thaçi ha rassegnato le proprie dimissioni da presidente della “Repubblica”, dopo essere stato raggiunto dalla notizia che la Camera Penale Speciale per il Kosovo lo aveva incriminato. La Camera Penale Speciale (Kosovo Specialist Chambers, KSC) e l’Ufficio del Procuratore Speciale (Specialist Prosecutor’s Office, SPO) è un Tribunale del Kosovo, costituito, appunto, da quattro sezioni specialistiche e dall’Ufficio del Procuratore Speciale, incaricato di esaminare le accuse in base alle quali i membri del cosiddetto “Esercito di Liberazione del Kosovo” (UÇK) si sono macchiati di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità durante la guerra serbo-albanese nella regione tra il 1998 ed il 1999. Il Tribunale, costituito nel quadro di diritto kosovaro, è, sostanzialmente, un tribunale kosovaro a tutti gli effetti, ma ha sede all’Aja, nei Paesi Bassi, allo scopo di proteggere i testimoni da eventuali, possibili, minacce, intimidazioni, ritorsioni. L’accusa che ha colpito non solo Thaçi, ma, tra gli altri, anche Kadri Veseli, ex presidente del parlamento e leader del Partito Democratico del Kosovo (PDK), e Rexhep Selimi, ex parlamentare kosovaro ed ex membro di primo piano dell’UÇK, è di essere «responsabili di quasi cento omicidi», di «sparizione forzata di persone, abusi e torture», ai danni di «centinaia di vittime albanesi, serbi, rom e di altre etnie del Kosovo» oltre che di «oppositori politici». Prima di loro, Jakup Krasniqi, ex presidente del parlamento ed ex portavoce dell’UÇK, già arrestato a seguito di un’operazione speciale della Corte dell’Aia, è comparso per la prima volta di fronte ai giudici il 9 novembre. «Non mi sento responsabile di nulla e non avverto alcun senso di colpa», è stata, secondo quanto riferito dalla stampa, la sua dichiarazione. Né più né meno di una delle dichiarazioni rese dallo stesso Thaçi – nome di battaglia “il Serpente” – subito prima del suo arresto: «Nessuno potrà riscrivere la nostra storia»