Insegno in un CPIA, vi passa tutto il mondo. Umar aveva 18 anni quando l’ho conosciuto, veniva dal Pakistan. Sempre in prima fila, attento, serio, con la sua giacchetta grigia come quelle che vendono nei mercati delle pulci in Germania, Flohmarkt, “ Jedes Stück eine Mark! Jedes Stück eine Mark! ” Un pezzo un marco!! Umar col suo volto serio, attento, la sua forte fede musulmana, il suo sorriso un po’ vergognoso, qualche dente in meno. Umar dopo parecchio tempo ci aveva raccontato: il suo viaggio era stato durissimo. Un paio di volte l’ho anche portato con me in un’altra classe a ri-raccontare il suo viaggio. Molti compagni e compagne non ci credevano.
Mesi e mesi, a piedi, per sentieri, derubati più volte, le botte, il freddo. E poi quei tratti che diceva “No, di lì non ti racconto…” Qualche silenzio. Umar, dolcissimo. Lo avevo abbracciato, si poteva fare, bei tempi. Ora era in comunità, studiava sodo, anelava a un mestiere.
Le sue mani non erano da 18enne, erano già segnate, non oso pensare ai suoi piedi, cosa abbiano attraversato.
Voglio un enorme bene a Umar e a quelli come lui.
Così quando due mesi fa il mio amico Michele mi dice che c’è una raccolta di vestiti del gruppo OPETBOSNA mi attivo. Raccolgono tutto al Torchiera, mi fido eccome.
Per farla breve: mi inseriscono in un gruppo watsup con notizie dalla rotta balcanica, nei giorni scorsi leggo cose terribili. Cerco la fonte, mi passano il numero di Gianfranco Schiavone, che lavora all’ICS a Trieste ed è stato a lungo vicepresidente dell’ASGI (associazione studi giuridici sull’immigrazione).
Come mai conosciamo di più Lampedusa rispetto al Friuli, a Trieste?
Comincia a raccontarmi, accendiamo le torce, scendiamo come speleologi…
Mi occupo da tanti anni di immigrazione, sia sul piano operativo che su quello più politico-normativo. Stare a Trieste mi permette di vivere da vicino quello che succede su questo versante. Trieste è il punto terminale di una delle principali vie di fuga verso l’Europa, la rotta balcanica. Qui arrivano migliaia di persone che fuggono da guerre o regimi autoritari; pensiamo a siriani, afghani, iracheni, iraniani. Queste nazionalità sono molto rappresentate lungo questa rotta, ma non sono numericamente così consistenti in Italia, per questo credo voi conosciate meglio Lampedusa che il Friuli. Questo flusso in gran parte lambisce l’Italia, prosegue o cerca di farlo.
Negli ultimi 20 anni, qui nel Nord Est, abbiamo visto i risultati delle crisi, a partire dalla coda delle crisi balcaniche che sono state importanti, poi quella del Kossovo, quindi molti kurdi, palestinesi, afghani, fino al 2015 con la guerra in Siria: in quel momento arrivarono più di un milione di persone e tutti si accorsero della rotta balcanica. Ma l’Italia continuò ad essere poco più che lambita da queste ondate. Negli ultimi 4 anni, prima vi è stata una diminuzione, ma dal 2018 vi è stata una forte ripresa e questa volta verso l’Italia, dovuta anche al muro ungherese. La rotta si è spostata ad Ovest e la Bosnia a questo punto è diventata lo snodo. Il corridoio Bihać – Trieste è diventato quasi obbligatorio.
Avete ben chiaro cosa avviene lungo questo viaggio che può durare anche mesi, o vi sono punti assolutamente oscuri?
Ce l’abbiamo ben chiaro, è un percorso costellato di violenza. Un afghano può iniziare a subire violenze in Iran o in Turchia, quindi in Grecia e poi lungo la rotta balcanica; ma ciò che mi sconvolge di più dai racconti che sentiamo negli ultimi due anni è che i punti, che tutti riferiscono essere i peggiori, sono quelli più vicini a noi. In questo percorso complicato entrano nell’Unione Europea, poi ne escono, pur essendo in Europa, vi rientrano in Croazia, ma quello che avviene lì, in piena Unione Europea, a tre ore di auto da qui, è descritto come il punto più inenarrabile del viaggio.
Perché è peggiorato in questi ultimi due anni?
Le violenze in Croazia sono documentate da moltissimi rapporti mai smentiti che risalgono a metà 2018, a cominciare da quello di Amnesty International. La Croazia è una “democrazia fragile” (ha problemi interni con la propria polizia, esce da una guerra sanguinosa con numerosi criminali di guerra, impuniti), ha al suo interno un diffuso razzismo, ma ha anche probabilmente ricevuto indicazioni sul “lavoro sporco” da fare e, attraverso delle bande consistenti, lo sta facendo. Il committente di queste violenze è l’Unione Europea; a volte lo stesso governo croato, difendendosi, con una certa sincerità e ingenuità, ha finito per dire la verità quando ha detto: “Noi proteggiamo i confini dell’Europa.”
L’obiettivo è fare in modo che la persona che mi si presenta al confine, e che io respingo, non torni domani: devo quindi pestarla, derubarla, spaventarla, torturarla, lasciarla ferita. E che serva di lezione a quelli che stanno dietro di lei, nell’abbandono dei campi in Bosnia. Io definisco questo meccanismo “la violenza necessaria”, per ottenere quell’alleggerimento, quel “disincentivo” che chiede l’Unione Europea. Il messaggio deve essere forte e chiaro: “Avete sbagliato a venire qui! Non c’è posto!” Si tratta di una spirale di violenza che riguarda la Croazia e tutta l’Europa. Tutto ciò si affianca alle percosse e ai respingimenti compiuti sulle coste greche dalla polizia greca e denunciati dal New York Times. Ci sono oramai polizie dell’Unione Europea che agiscono in modo strutturalmente violento ed illegale. L’obiettivo è chiaro, la strategia pure. Il diritto è saltato. Questo lavoro non può che essere sporco.
Si può dire che questi Paesi stiano agendo come la Turchia, che funziona da grande contenitore e contenimento, in cambio di soldi a palate?
In un certo senso sì, ma non vi sono certo le medesime proporzioni. Gli stati dell’Ex-Jugoslavia, al di fuori della UE e la Bosnia in particolare, sono stati cuscinetto, non hanno una grande contrattualità. L’Unione Europea non ha nessun piano di gestione delle migrazioni che risalgono la rotta, sfrutta quest’area geografica per frapporre infiniti ostacoli, guadagna tempo. Della rotta balcanica e delle violenze che vi vengono commesse, in Europa e in Italia non se ne deve parlare, silenzio, punto. Perché possiamo anche forse accettare che si parli di ciò che accade in Libia e delle nostre responsabilità, in quanto “altro” da noi, un altrove, un “non stato”, ma di questo non si deve parlare perché tanto gli ideatori come gli esecutori materiali delle violenze siamo noi; è “casa nostra”. Non possiamo scoperchiare questa pentola nostrana, il tappo mediatico deve tenere.
Veniamo alle notizie di questi ultimi mesi: dal territorio italiano molti immigrati vengono “presi e ributtati indietro”.
Si, faccio qualche precisazione. Tutti conoscono il regolamento Dublino 3. Pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni il regolamento garantisce a chi arriva alle nostre frontiere dei diritti, a cominciare da quello fondamentale di vedere registrata comunque la sua domanda di asilo, di essere di conseguenza temporaneamente collocato in accoglienza. Solo dopo si attiva la procedura per stabilire se lo stato competente ad esaminare la sua domanda è quello in cui si trova, o è un altro verso il quale deve essere spostato. Tutti sanno che è un meccanismo che non funziona da anni, né per gli Stati che tentano di scaricarsi i richiedenti asilo l’uno con l’altro, né per le persone la cui vita è sospesa a volte per anni. Ma, per quanto inefficace è pur sempre una procedura con le sue regole. Ora è come se si fosse deciso da parte degli Stati UE coinvolti nella rotta balcanica che tutto questo doveva finire: non devo registrarli e cercare di scaricarli a qualche altro Stato UE applicando il principio del paese di primo ingresso, sennò alla fine andrà che “me li devo tenere” . Come se i migranti non fossero mai arrivati sul mio territorio; la nuova strategia è quella di allearmi con gli altri Stati UE e tutti insieme, in una catena, rigettare i richiedenti al di là dei confini dell’Unione, in Bosnia-Erzegovina, uno dei paesi più poveri ed instabili d’Europa. C’è una sconvolgente logica “eversiva” in tutto ciò, perché gli stati coinvolti violano le leggi vigenti sapendo di farlo.
Da metà maggio le indicazioni del governo italiano sono chiare: “Al confine di Gorizia e Trieste non si prendono più le domande di asilo con tutta la pesante procedura e gli oneri che ciò comporta; si rispedisce indietro e basta; quanti più se ne può.” Croazia e Slovenia lo facevano già da un paio d’anni, ora ha iniziato anche l’Italia.
L’operazione è stata preparata a tavolino: “Queste persone che arrivano non esistono e non devono esistere”. Tutto ciò è inaudito e stiamo cercando di farlo sapere il più possibile, ma fino a che al governo c’era la Lega era paradossalmente più facile scoperchiare questi temi, ora è politicamente più difficile.
In questa neolingua orwelliana non si parla di respingimenti, ma di riammissioni. Sono di fatto sinonimi?
Qui si gioca molto sullo stravolgimento delle nozioni giuridiche e ci si è abilmente infilati in alcune ambiguità e vuoti normativi. Il diritto della UE disciplina i respingimenti ai confini esterni, mentre qui ci troviamo su confini interni e, fatte salve le limitazioni alla libertà di circolazione eventualmente imposte in via transitoria dalle disposizioni a contrasto della pandemia, siamo in regime di libertà di circolazione nell’area Schengen. Non ha senso qui approfondire questioni troppo tecniche, ma, in sintesi, il problema è che il “respingimento” di uno straniero al confine interno tra due Stati che hanno tra di loro un accordo di riammissione che risale a prima del 2008 (ed è il caso di ciò che avviene tra Italia e Slovenia, il cui accordo risale al 1996) è un istituto giuridico dai confini poco definiti. Tuttavia, sia ben chiaro, non c’è alcun dubbio che nessuna decisione di riammissione può essere applicata a un richiedente asilo che si trovi a una frontiera interna, ma è ciò che illegalmente sta avvenendo sfruttando l’uso della parola dolce “riammissione” verso un altro paese europeo, quindi sicuro. Così l’opinione pubblica, soprattutto qui in Friuli, dice: “Ma si, cosa vuoi che sia, sono riammissioni in Slovenia …” La coscienza in realtà è ben sporca, perché si sa che rimandarli in Slovenia è solo la prima tappa di un viaggio di ritorno fino appunto ai pestaggi e ai miserabili campi in Bosnia.
Potremmo fare un’equazione quasi matematica: la Francia sta all’Italia come l’Italia sta alla Slovenia e quindi Ventimiglia come Trieste?
In parte sì, la logica è la stessa, perché gli Stati hanno ormai ingaggiato una sorta di guerra l’uno contro l’altro, attraverso questa sorta di merce umana che sono i richiedenti asilo e siccome tutti sanno che “se rispetto la legge (e quindi prendo le domande di asilo e accolgo quelli che arrivano) io sono il fesso”, perché poi “me li tengo”, ignoro la loro volontà di chiedere asilo e cerco di scaricarli altrove. C’è però una differenza: mentre questo indecoroso balletto fra Italia e Francia vede il migrante rimanere comunque all’interno dello spazio UE, le cosiddette “riammissioni” a catena lungo la rotta balcanica finiscono per espellere dall’Unione Europea. La vicenda balcanica è quindi molto più simile a quella libica.
Vi sono Ong italiane lungo quella tratta? C’è una sorta di corrispondente delle navi che aiutano nel Mediterraneo?
Ci sono solo Ong locali, slovene e croate; dall’Italia l’unica cosa che si può fare è stare in contatto con loro e supportarle in quello che possono fare, spesso molto poco. Soprattutto in Croazia sono realtà che operano in un contesto sociale tendenzialmente ostile e che sono presenti solo nelle città più grandi. Nelle aree rurali il consenso popolare alla propaganda xenofoba è impressionante.
Descrivici il confine italo-sloveno e la situazione in generale del Friuli
Il territorio dell’altipiano del Carso è oggi di fatto militarizzato, fa impressione. Vi sono ronde dell’esercito anche lungo i sentieri, sembra di essere in guerra. Se i militari bloccano un migrante chiamano la polizia e si procede dunque al respingimento o, appunto, alla riammissione. Dalle testimonianze raccolte emerge che gli “accompagnamenti” dei fermati sono spesso dissimulati, a volte col vero e proprio inganno, dicendo che vengono portati in un centro di accoglienza e poi li si lascia nelle mani della polizia slovena. L’obiettivo è che il tutto avvenga nel minor tempo possibile, meglio se nel giorno stesso del loro arrivo. Viene fatto tutto il possibile affinché non arrivino in città, ma sono stati segnalati anche casi di persone prelevate in pieno centro cittadino a Trieste, quasi si trattasse di rastrellamenti, per essere poi deportate in Slovenia. Sono persone che ne hanno passate di ogni tipo, molte volte arrivano a piedi distrutte, stremate, e che magari si stupiscono della “gentilezza” della polizia italiana in confronto alle violenze efferate che hanno subito da corpi di polizia di altri paesi. Quando arrivano in Italia l’obiettivo è di allontanarsi il prima possibile dalla zona di confine, sanno che è quella dove è più probabile essere rispediti indietro e ricominciare il ping pong. Sono come pesci al contrario, che si cacciano l’amo bene in gola per rimanere nel Paese dove sono arrivati. Sono uomini, donne, ragazzi che arrivano soprattutto a piedi.
Partendo dalla Bosnia, senza più soldi dopo le violenze e depredazioni subite, si incamminano con le loro poche cose e lungo sentieri in gran parte di montagna arrivano nei boschi del Carso dopo due o tre settimane di cammino, evitando ogni area urbana. D’altra parte tra Bihać e Trieste ci sono 235 chilometri e sono in gran parte in mezzo ai boschi.
I mesi scorsi sono stati terribili: la campagna mediatica rispetto alle “riammissioni” è stata feroce, c’era un bollettino giornaliero che diceva quanti erano stati “riammessi”, come fosse un’operazione di cui vantarsi. Ora, dopo le denunce di illegalità, i toni si sono abbassati, ma parte della popolazione locale sembrava quasi “fare il tifo” per polizia ed esercito. Ricordiamoci una cosa: qui non si vede il sangue, non si vede niente. Così per noi è stato difficilissimo far comprendere la gravità dei fatti, anche con le persone già sensibili. Qui non c’è una barca che affonda, di là non ci sono i libici, ma una delle mete delle nostre vacanze, con ristoranti e bar. Non è facile far capire la catena della violenza.
Cosa possiamo fare?
Ho passato mesi durante i quali mi sembrava di impazzire nel cercare di far sapere quello che stava accadendo. Il primo obiettivo è che SI SAPPIA. Questa ulteriore vergogna sta avvenendo da maggio, ma si inizia a parlarne seriamente adesso, momento tra l’altro in cui la neve alta due metri rallenterà gli ingressi e quindi la comunicazione mediatica. L’estate scorsa abbiamo sollecitato giornali, televisioni, parlamentari: nessuno è venuto. Il livello di visibilità e di indignazione è ancora troppo basso, siamo abbondantemente sotto traccia, dobbiamo fare il possibile perché i riflettori rimangano accesi sulla gravità di questa vicenda.
Dobbiamo riuscire ad avere un vero dibattito pubblico. La speranza è che questa “sperimentazione” finisca con il periodo dell’emergenza Covid, ma non è affatto scontato che ciò avvenga.
Ci salutiamo con il cuore che batte, gli sguardi fermi, la voce in gola. Gli dico che queste sue parole mi hanno riportato indietro nel tempo, quando di quella zona d’Italia si parlava tanto… Anche lui mi confessa che mai come in questi ultimi mesi gli sono tornate in mente le immagini della Risiera di San Sabba. Coraggio.