Sparare agli orologi. Fu uno dei primi gesti dei rivoluzionari della Comune di Parigi. Atto inconsueto ma simbolico. La temporalità è un elemento chiave sottovalutato non solo per comprendere il dominio di una classe sociale o del modo di organizzazione di una società, ma soprattutto per capire come si rapporta l’uomo col proprio futuro.
Nei libri di storia quando si parla dei grandi imperi e dei grandi conquistatori, come Alessandro Magno o Gengis Khan, conosciuti per aver assoggettato popoli e continenti, si misurano i successi e i rapporti di forza attraverso la direttrice dello spazio.
Lo spazio è dunque un “luogo politico” ed è in tal senso studiato dalla disciplina chiamata geopolitica.
Eppure un’altra dimensione politica sottovalutata, su cui si scontrano i rapporti di forza tra vincitori e vinti, è il tempo.
I padroni del tempo
Tempo e potere sono da sempre stati associati, tanto che sin dall’epoca classica l’eponimia, ovvero la pratica di chiamare l’anno con il nome dei capi, era una consuetudine, sia a Roma che ad Atene. Persino i calendari, il modo in cui il tempo si calcola, sono stati oggetto di numerose riforme nel corso dei secoli ed hanno preso i nomi di papi o legislatori. Si è passati dal calendario giuliano, organizzazione temporale voluta da Giulio Cesare, a quello gregoriano, voluto dal papa Gregorio XIII 1600 anni dopo. Dal primo al secondo c’è stato quel Medioevo in cui il tempo apparteneva a Dio.
La Chiesa era padrona dei tempi quotidiani, settimanali, annuali o dell’intera vita.
Nell’arco di una giornata la campana suonava e dettava i tempi vitali del lavoro, del sonno, della preghiera.
Nell’arco di una settimana il tempo del riposo per i contadini, la Domenica è infatti il giorno del Signore.
L’anno era scandito dalle feste religiose della Pasqua, Pentecoste, Natale, Quaresima. Finanche i tempi di riscossione delle imposte erano dettati dal calendario religioso.
Durante la propria esistenza nel mondo cristiano le persone dovevano inoltre compiere, in certi momenti della propria vita i vari sacramenti che facevano di loro dei buoni cristiani.
Eppure gli uomini vivevano in proiezione di un tempo non presente, bensì nella speranza futura di vivere una seconda vita oltre la morte in un altro luogo.
Fino all’età moderna quindi il dominio del tempo è appartenuto alla religione, tanto che ancora oggi il conteggio degli anni si fa partire dalla nascita di Gesù e nel mondo musulmano dall’Egira.
Ma poiché il tempo non apparteneva agli uomini ma a Dio, questi non potevano lucrarvi. La Chiesa bandiva il prestito bancario che di fatto sfruttava il decorrere del tempo degli interessi. Il mestiere di banchiere era mal visto. La crescente necessità di denaro da parte della Chiesa e degli Stati Nazionali nascenti portò alla progressiva scomparsa di questo tabù.
Il tempo dei padroni
Così la cultura umanista e l’affermazione sociale della borghesia cittadina portarono ad una lenta ma inesorabile appropriazione del tempo da parte degli uomini.
Questo passaggio del monopolio del tempo da Dio agli uomini, dalla Chiesa alla borghesia è documentato da Jacques LeGoff ne “Il tempo della Chiesa e il tempo del mercante”. La tendenza a quantificare il tempo per dominarlo si lega inesorabilmente alla “masserizia”, la prudenza economica, elaborata da Leon Battista Alberti e fonte di qualsiasi guadagno.
Non è un caso che nel XVII nasca l’orologio a pendolo, simbolo dell’appropriazione borghese domestica e personale del tempo.
I borghesi della rivoluzione francese tentarono di sottrarre anche la nomenclatura all’Ancien Regime, cambiando i nomi dei mesi che avevano dai tempi degli antichi romani (Brumaio, Fiorile etc.) così come la suddivisione dei giorni e delle settimane.
Ogni regime politico tenta di imporre la propria temporalità, come fece il regime fascista. Questo attacco alla temporalità è importante perché ogni modo di produzione impone il proprio tempo.
All’inizio del XX secolo infatti il taylorismo propone un modo produzione efficace che deve eliminare lo spreco di tempo e aumentare i rendimenti. Le azioni e i gesti vengono cronometrati. Il mondo moderno si fonda sulla precisa misurazione del tempo e sulla sincronizzazione di tutti gli attori.
Non è più la temporalità ad essere dominata ma il tempo che inizia a dominare le attività ed essere integrato in qualsiasi oggetto e accessorio. Orologi, sveglie, cronometri dettano i tempi del lavoro e del guadagno. Le rivoluzioni di primo Novecento pretendevano arrestare proprio quella alienante frenesia industriale che Majakovskij definisce “byt”.
Presentismo post-moderno
Oggi invece in che tempo viviamo?
In più luoghi, in un eterno presente.
Nella società post-moderna si sono moltiplicati gli spazi in cui noi contemporaneamente esistiamo. Come il multiverso nella teoria delle stringhe, ogni spazio reclama la nostra attenzione ed il nostro tempo.
Contemporaneamente possiamo condividere un post programmato precedentemente mentre aggiungiamo sul cellulare un evento in agenda. Dobbiamo continuamente aggiornare tutti i nostri avatar dei profili social, tutti gli altri mondi “presenti” e sincroni che sono collegati a noi.
Mentre sfuma l’importanza del passato, della storia e del suo ruolo, affidando la memoria alla tecnologia e i nostri ricordi a Facebook, il presente diventa un futuro sempre più immediato: l’unico mondo possibile, in cui scompaiono le alternative future.
Viene così imposto è quello che viene chiamato “futuro spicciolo” dal collettivo Wu Ming, da cui sono tratti alcuni spunti di questa riflessione. Il futuro spicciolo è appena posteriore al presente in cui la società capitalistica impone il soddisfacimento del bisogno indotto.
Sembriamo allontanarci sideralmente dal “futuro anteriore” che invece è quello utopico, nel senso di altra realtà possibile, modello da raggiungere, ma non quello utopistico, nel senso di velleitario. La realtà anzi le realtà possibili in cui siamo proiettati dai nostri avatar soddisfano i nostri bisogni utopici sincronici neutralizzando la proiezione diacronica verso il futuro.
Il presentismo dei social ci sta forse rubando la possibilità di creare dei futuri anteriori possibili? Ogni volta che apriamo Facebook, aggiungiamo un mattone alla nostra prigione temporale?
Per un attimo durato qualche decennio (dagli anni ‘90 ad oggi) è sembrato che tutti fossero d’accordo sul fatto che il tempo non esistesse più.
Da un punto di vista politico per l’onnipotente ideologia liberista non solo sembra che non ci siano alternative, ma che addirittura siamo giunti alla “fine della storia” (Fukuyama) intesa come raggiungimento di un’evoluzione lineare del progresso, della scienza e della tecnica.
Persino le traiettorie climatiche ci portano a dire che il futuro non esiste e che, nel lungo periodo, come diceva Keynes, siamo tutti morti.
Avendo scelto di abbandonare le nostre scelte ed il nostro futuro alle leggi del mercato e dell’inevitabilità del collasso globale, paradossalmente stiamo tornando ad una concezione apocalittica del tempo, simile a quella dell’Alto Medioevo, in cui l’idea di un progresso che migliori la condizione umana, di proiezione verso il futuro, non esiste, poiché si pensa che il futuro coincida con la fine della Terra, giudicata prossima.
Solo che nel Medioevo speravano in un’altra vita. Noi dall’avvento del Covid siamo riusciti ad aggiungere una nuova temporalità a questa agonia, quella delle nuove ondate epidemiche.
Viene da pensare a Chuck Palahniuk che ci chiede: “Quand’è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?”