Il Brasile ha un tasso di 359,4 detenuti ogni 100.000 abitanti, ovvero 755.274 persone incarcerate nel 2019, secondo i dati forniti dal Dipartimento Penitenziario Nazionale (Depen) al Forum Brasiliano di Pubblica Sicurezza. Oltre a questi dati spaventosi, un altro dato rivela che il sistema carcerario brasiliano è caratterizzato da un profilo razziale ben definito: uomini e donne neri rappresentano il 66,7% della popolazione carceraria. Queste cifre, da sole, sono sufficienti per mettere in discussione l’idea di “democrazia razziale” presente nel paese.

La discussione sul sistema carcerario brasiliano è vecchia e, oltre a coinvolgere avvocati, pubblici ministeri e magistrati, è presente nelle discussioni più impegnate di sociologi, assistenti sociali, altri professionisti e semplici cittadini che si occupano di questioni relative ai diritti umani.

Quando prendiamo come base di analisi l’enorme quantità di ricerche e studi, emergono sì molte possibilità di riflessione, ma tutti i dati dimostrano le debolezze, la mancanza di rispetto per i diritti umani e i meccanismi messi in atto dallo Stato per mantenere il razzismo in Brasile.

Come abbiamo già detto in altre occasioni, il razzismo non è esclusivamente un comportamento individuale isolato, ma una struttura storicamente costruita per subordinare, stigmatizzare, escludere e opprimere i corpi neri. L’uso del sistema carcerario è solo uno di questi meccanismi.

La crudele realtà chiamata razzismo

Come afferma l’avvocato, filosofo, dottore in Filosofia e Teoria generale del diritto Silvio Almeida, nell’opera “Razzismo strutturale” (2019), le dinamiche prodotte dal razzismo riguardano principalmente la configurazione interna di una società, poiché stabiliscono gerarchie, naturalizzano storiche forme di dominio e giustificano l’intervento dello Stato sui gruppi sociali discriminati. Almeida sottolinea inoltre che, a differenza di quanto accaduto negli Stati Uniti, in Brasile non si è mai instaurata una dinamica di conflitto basata sulla questione razziale. Ecco perché l’ideologia della “democrazia razziale” ha acquisito così tanta forza in questo paese.

Tuttavia, i dati relativi alla pubblica sicurezza, così come altri, sono incompatibili con questo tentativo di negazione del razzismo che esiste nella società brasiliana. L’Annuario brasiliano della pubblica sicurezza (2020) mostra numeri illustrativi: in un solo anno, dal 2018 al 2019, il numero totale dei detenuti nel Paese è passato da 744.216 a 755.274, raggiungendo un tasso di 359,4 detenuti ogni 100mila abitanti. Sempre secondo il documento, la popolazione carceraria nazionale segue un profilo molto simile a quello delle vittime di omicidi: è formata, in generale, da uomini giovani, neri e con un basso livello di istruzione.

Mentre la popolazione non nera rappresenta il 33,3% dei detenuti, la popolazione carceraria nera è del 66,7% (dati del 2019). Si evince che, nelle carceri brasiliane, i neri sono il doppio dei non neri. Inoltre, i dati contenuti nell’Annuario mostrano che questi numeri sono in aumento. Nel 2005 neri e nere costituivano il 58,4% della popolazione carceraria, attualmente questa percentuale raggiunge quasi il settanta per cento (66,7). Per quanto riguarda invece la popolazione bianca, i dati mostrano l’esatto contrario: nello stesso periodo si è passati dal 39,8% al 33,3%.

Insomma, non si può parlare di “democrazia razziale” in questo paese. Ed è anche impossibile ipotizzare l’esistenza di un sistema meritocratico quando, oltre a questi dati allarmanti sul sistema carcerario, analizziamo i tassi di disoccupazione e le differenze salariali tra neri e bianchi o quando esaminiamo la proporzione di uomini e donne neri nelle sacche di miseria e di povertà, nei tassi di analfabetismo strumentale e funzionale, nelle percentuali di residenti senza accesso alla rete fognaria.

Non è vittimismo

Tutti questi dati sono contenuti nelle ricerche sulle disuguaglianze razziali in Brasile, pubblicate ogni anno dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica (IBGE) e dimostrano le disparità tra neri e bianchi, nonché la mancanza di impegno da parte dello Stato brasiliano – e delle élite privilegiate del paese – nell’affrontare la crudele realtà del razzismo strutturale.

Ritorno a Silvio Almeida, per cercare di concludere questa riflessione. Nello stesso libro, l’autore afferma che il razzismo è un fattore strutturale, che organizza le relazioni economiche e politiche nella società capitalista. Come sottolinea Almeida, “l’istituzionalizzazione delle differenze razziali e di genere garantisce che il lavoro sia realmente sottomesso al capitale, poiché il razzismo toglierà al lavoratore ogni rilevanza come individuo”. Inoltre, sempre secondo Almeida, il nero è privato delle condizioni necessarie per chiedere parità di trattamento e, per questo, “gran parte della società non vedrà alcuna anomalia nel fatto che la maggioranza dei neri guadagnino salari più bassi, sottomettendosi a lavori più degradanti.”

Ecco perché è importante osservare il razzismo da una prospettiva strutturale. Solo questo sguardo è in grado di “sbendare” gli occhi di chi definisce le disuguaglianze razziali a partire dall’idea di una società costruita sulla meritocrazia e sulle competenze individuali. Questa idea di società è priva di analisi e porta molte persone a non combattere, o a non difendere la lotta antirazzista. La lotta della popolazione nera organizzata viene vista, dunque, come una forma di vittimismo e non come un movimento che interroga, rivendica e pretende diritti e rispetto.

 

Traduzione dal portoghese di Cristiana Gotsis. Revisione: Silvia Nocera